Il dottor José Baselga, figura di primo piano nell’ambito della ricerca e terapia del cancro, in particolare di quello mammario, direttore medico al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York (uno di più importanti centri di ricerca a livello mondiale, con circa 17mila dipendenti) è incorso nell’ostacolo più importante nella sua carriera: il conflitto di interessi (CdI).
Legato come consulente a Roche e Bristol-Meyers Squibb, oltre a decine di altre aziende farmaceutiche, possessore di quote azionarie di startup nella ricerca di terapie innovative sul cancro alla mammella, in prima linea nella commercializzazione di trattamenti sperimentali rivoluzionari, José Baselga non si è attenuto alle regole dell’American Association for Cancer Research (AACR), di cui era presidente. Come scrive il New York Times (NYT) l’8 settembre 2018, basandosi sui dati di Pro Publica (gruppo di giornalisti investigativi sui legami fra industria e sanità), Baselga ha omesso di dichiarare i lauti compensi connessi alle sue ricerche al momento di pubblicare articoli sulle riviste più prestigiose, quali NEJM e Lancet.[1]
Baselga non si è accontentato di 1.5 milioni di dollari che riceveva annualmente (dichiarazione dei redditi 2016) dal Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Lo scorso anno aveva dato una svolta decisiva a due ricerche finanziate da Roche (considerate però di scarso valore da altri colleghi) senza rivelare le sue relazioni con l’azienda dalla quale aveva ricevuto dal 2014 più di 3 milioni di dollari in consulenze e compartecipazioni aziendali. Richiesto di spiegare, ha parlato di lapsus non intenzionale, aggiungendo che in ogni caso i compensi ricevuti anche da molte startup di biotecnologie erano avvenuti alla luce del sole, se pure non dichiarati, ed erano facilmente rintracciabili; quasi a dire, è vero non li ho dichiarati, ma a cosa serve se chiunque poteva facilmente andare a controllare? Ancora una volta gli eventi mostrano la facile permeabilità fra gli interessi della ricerca accademica e quelli delle aziende farmaceutiche, e quanto debole sia il ruolo di controllo delle riviste scientifiche e delle associazioni professionali incaricate di vigilare.
Non si tratta però solo di compensi non dichiarati. Il fatto più grave è che tali comportamenti possono avere influenzato i risultati della ricerca, spingendo all’uso di alcuni farmaci piuttosto che di altri. Una figura prestigiosa come Josè Baselga riesce facilmente ad influenzare la pratica prescrittiva dei colleghi. Se questi avessero conosciuto gli stretti legami finanziari con le aziende farmaceutiche sarebbero stati in condizione di valutare più obiettivamente i risultati delle sue ricerche (è questo in sostanza lo scopo della dichiarazione del CdI).
Già le sanzioni sono ridicole; in più, se proprio gli opinion leader non seguono le regole, è come se queste non esistessero, prosegue il NYT. La AACR, ad esempio, esclude per tre anni dalla pubblicazione di articoli chi non abbia dichiarato il CdI, ma tale esclusione non è ben specificata nel sito dell’associazione, e così la regola non è mai stata applicata. La AACR e il NEJM si sono difesi affermando che stanno facendo indagini su Baselga dopo quanto apparso sul NYT, mentre il Lancet non ha voluto dire se avrebbe affrontato la questione. Il Memorial Sloan Kettering Cancer Center ha dichiarato di essere a conoscenza dei fatti, ma che non spettava loro la divulgazione degli stessi.
In seguito, Baselga ha sostenuto di aver corretto la dichiarazione di CdI in 17 dei suoi articoli, ma non negli altri poiché quelle riviste non obbligavano a tale gesto (mi chiedo se i CdI debbano essere dichiarati per obbligo o per dovere etico). “Ho avuto come punto fermo della mia attività di ricerca la salvezza di vite umane”, ha dichiarato Baselga, “non credo che l’omissione di alcune dichiarazioni di CdI possa minare la mia carriera di scienziato e di leader nella terapia del cancro alla mammella” (come dire che di fronte alla sua statura professionale l’omessa dichiarazione rappresenta solo una puntino nero su un curriculum immacolato). Dal 2013, Baselga siede nel board commerciale di Bristol-Meyers Squibb e di sei altre aziende farmaceutiche, cariche per le quali deve difendere per statuto gli interessi aziendali. Egli stesso è direttore della ditta che fornisce le apparecchiature per la radioterapia al Memorial Sloan Kettering Cancer Center.
Dopo gli scandali del 2008,[2] il Governo Federale USA ha approntato una legge che obbliga le aziende farmaceutiche e di apparecchi medicali a dichiarare ogni pagamento devoluto ai medici, a qualunque titolo. Si tratta del cosiddetto Sunshine Act, in vigore dall’estate del 2013, che ha permesso di vedere attraverso dati liberamente consultabili in rete che dall’agosto 2013 a tutto il 2017 Baselga aveva ricevuto 3.5 milioni di dollari da almeno 9 aziende. Egli aveva dichiarato di essere consulente delle stesse, ma non di essere legato da forti interessi commerciali. Si è difeso affermando che per prodotti ancora in fase sperimentale e non registrati da FDA non corre l’obbligo di denunciare i finanziamenti ricevuti (anche qui riafferma l’opinione che il CdI vada dichiarato solo di fronte ad un obbligo).
Analizzando tutte le pubblicazioni di Baselga dal 2013, anno della sua affiliazione al Memorial Sloan Kettering Cancer Center, ProPublica e NYT hanno scoperto che non aveva dichiarato legami con l’industria nel 60% dei casi, percentuale salita all’87% nell’ultimo anno considerato. Baselga ha fornito questa interpretazione: nel 62% dei casi si trattava di articoli concettuali, di laboratorio, che non richiedevano alcuna dichiarazione; negli altri si è giustificato dicendo che non avevano implicazioni commerciali. Rimangono 17 articoli, che ha pensato bene di correggere a posteriori. Va precisato che nei due terzi dei casi negli articoli co-firmati gli altri autori avevano sempre prodotto una regolare dichiarazione di CdI. Se si va a rivedere l’articolo pubblicato sul NEJM riguardante il farmaco Zelboraf di Roche, egli aveva dichiarato di non avere nulla da dichiarare, mentre lo avevano fatto i 14 coautori.[3] Baselga sostiene che si trattava di articoli di fondamentale importanza per la ricerca sul cancro e questo, sottintende, dovrebbe ampiamente giustificare le omissioni. Il NYT passa poi ad elencare tutti i 21 ambiti di interessi finanziari di Baselga classificati come relazioni industriali, cariche dirigenziali, consulente pagato, consulente scientifico e fondatore o cofondatore di startup.
Nonostante le società scientifiche obblighino i loro rappresentati a dichiarare i CdI, il tutto rimane sulla carta. Nell’agosto 2018, JAMA Oncology ha scoperto che in almeno un terzo dei casi gli autori di alcuni studi pubblicati, presi come esempio, non avevano dichiarato alcun pagamento da parte degli sponsor dei loro studi. Intervistata dal NYT, la dr.ssa Redberg, redattrice di JAMA e critica sulle influenze dell’industria nella pratica medica, ha risposto di non avere fondi per questo tipo di indagine, affermando che ci si basa più sull’integrità delle persone e sul codice etico che dovrebbe in ogni caso far parte delle relazioni professionali. La portavoce del NEJM ha risposto di aver chiesto a Baselga di rendere pubblici i suoi legami, e che la rivista sta pianificando un monitoraggio delle relazioni industriali degli autori. Anche l’AACR ha dichiarato di avere intrapreso un’estesa revisione dei legami di Baselga con l’industria.
Tra le omissioni più importati di Baselga si conta certamente il suo stretto legame con Roche e la sua consociata statunitense Genentech. All’incontro annuale dell’American Society of Clinical Oncology, Baselga, in un meeting sponsorizzato da Roche, esortava i presenti a usare l’Herceptin, farmaco che presenta sul mercato alternative meno costose, in combinazione con l’ancora più caro Perjeta. I risultati dell’associazione (un fiasco totale secondo alcuni analisti) sono stati poi così deludenti da produrre un calo repentino del 5% della quotazione delle azioni Roche. Un altro passo falso di Baselga nella stessa conferenza è stato l’annuncio che il farmaco taselsib stava producendo risultati incredibilmente positivi, mentre Roche quasi in contemporanea dichiarava di avere interrotto le ricerca sul prodotto.
Baselga, dunque, non solo aveva taciuto le sue relazioni di consulente scientifico con Roche, ma aveva omesso i ben più sostanziosi legami commerciali con la stessa. Nel 2014, Roche acquisiva Seragon, un’azienda di ricerca sul cancro di cui Baselga aveva una quota di proprietà per 724mila dollari, che salivano dopo l’acquisizione a 3 milioni. Come non bastasse, fra il 2013 e il 2017 Baselga aveva ricevuto più di 50.000 dollari in consulenze dalla Roche stessa. Baselga si era limitato a chiarire di avere scisso ogni legame con Roche dopo la sua nomina a consulente della concorrente Bristol-Meyers Squibb.
Dopo che lo “scandalo Baselga” è stato oggetto di interesse dei media, il JAMA, in cui l’oncologo aveva firmato un importante articolo scrivendo “nothing to declare”, ha pubblicato nel mese di ottobre 2018 due editoriali e un commento, e ha ospitato una lettera dello stesso Baselga contenente l’elenco di tutte le sue affiliazioni commerciali, non dichiarate in quell’articolo.
Cattiva condotta in ambito scientifico e riviste biomediche
Il primo editoriale è firmato dai due capo redattori e si apre con la citazione della definizione di cattiva condotta in ambito scientifico formulata dal Department of Health and Human Services degli Stati Uniti.[4] La definizione si limita a invenzione, falsificazione e plagio nelle fasi di ricerca, revisione della stessa e pubblicazione dei risultati. Prosegue citando altre “irregolarità importanti” tra cui la mancata dichiarazione di CdI. Quando il direttore di una rivista biomedica trova che vi sia stata una qualche manchevolezza nelle fasi della ricerca, ha la responsabilità di assicurare l’integrità delle pubblicazioni. Gli autori coinvolti in una qualche forma di cattiva condotta, secondo i dati stimati, sono circa l’1-2%. Negli ultimi 5 anni, JAMA e le testate affiliate hanno pubblicato notizia di 15 articoli ritirati e 6 note di preoccupazione riguardanti altri 9 articoli. JAMA riceve ogni giorno messaggi o comunicazioni di lettori o autori che esprimono critiche a quanto pubblicato. Almeno 10-12 volte l’anno arrivano anche segnalazioni di presunta cattiva condotta. Sono denunce gravi che richiedono molto tempo ed esperienza per essere confermate o smentite. In alcuni casi si tratta soltanto di diversa interpretazione metodologica dei dati statistici, più che di cattiva condotta. Inizialmente si indaga anche se gli accusatori possano avere interessi, finanziari o di opinione, contrastanti con l’accusato, anche se la loro presenza non esclude una cattiva condotta di quest’ultimo. La ricerca richiede spesso molti mesi ed in alcuni casi fa presumere che il comitato editoriale non si stia interessando seriamente alle accuse sostenute su quanto pubblicato. In ogni caso non è materialmente possibile istituire una procedura d’inchiesta per ogni segnalazione. Lo stesso vale per le pubbliche istituzioni che debbano fronteggiare un problema analogo. Il percorso è lungo, complesso e faticoso, e alla fine si può arrivare a un verdetto che disponga una semplice correzione ovvero sostituzione di quanto pubblicato, a una nota di biasimo e, da ultimo, al ritiro dell’articolo.
Mi permetto un breve commento riguardo alla definizione di cattiva condotta scientifica, per la quale sono andato a leggermi la breve guida in 28 punti postata sul sito web del Department of Health and Human Services. La mancata dichiarazione di CdI viene riportata fra i peccati minori. Si precisa anche che il legame tra ricerca scientifica e capitale industriale è un fatto inevitabile e che avere CdI non è di per sé contrario all’etica professionale. Lo può divenire quando i risultati riportati siano sistematicamente favorevoli allo sponsor. Allo scopo, la linea guida n° 29 propone come soluzione che gli autori facciano ogni sforzo per rendersi conto dei propri eventuali CdI e nel caso dichiarino sempre situazioni (come possedere azioni di una ditta farmaceutica, avere accordi di consulenza con lo sponsor) che possano condurre a un CdI attuale o potenziale. Contrariamente a quanto sostengono da anni i Nograzie, che il CdI è un situazione, una contingenza che va sempre evitata, proprio perché di per sé contraria all’etica professionale, indipendentemente dal fatto che produca effetti negativi.
Conflitto di interessi, autori e riviste biomediche: nuove sfide per un problema che persiste
Il secondo editoriale, sempre a firma dei due capo redattori, oltre che di una rappresentante dell’associazione dei giornalisti medico-scientifici, comincia col ricordare che esistono attualmente leggi che obbligano i medici a dichiarare i pagamenti ricevuti dall’industria e dagli ospedali di insegnamento.[5] Nonostante ciò, il problema dei CdI non dichiarati persiste. Uno studio recente ha rilevato che il 32% di 344 oncologi non aveva dichiarato con completezza i pagamenti ricevuti dagli sponsor degli studi pubblicati sulle riviste biomediche più importanti. Così ha fatto oltre la metà di 40 dermatologi e il 6% di specialisti ORL, tutti estensori di linee guida. Un’altra ricerca condotta su 100 medici che avevano ricevuto ampi compensi da industrie di apparecchiature medicali, ha rivelato che in 225 articoli sponsorizzati pubblicati successivamente, solo nel 37% dei casi era inclusa la dichiarazione di CdI.
La responsabilità degli autori è spesso sminuita dal fatto che il CdI non viene percepito come tale, ovvero considerato limitante la propria attendibilità, e viene omesso, quando invece la decisione se sia o meno un bias spetta solo ai redattori e al lettore. Le informazioni per gli autori che pubblicano su JAMA sono precise e dettagliate e seguono alla lettera quanto stabilito dal ICMJE (Comitato Internazionale delle Riviste Biomediche). La dichiarazione avviene da quest’anno in formato elettronico e prevede una serie di messaggi di avviso ogni volta che chi la redige risponde NO, messaggi che chiedono se sia proprio NO la risposta giusta. Naturalmente il questionario, per quanto minuzioso, nulla può fare se l’autore risponde comunque di non avere nulla da dichiarare.
Poiché la dichiarazione completa del proprio CdI è un prerequisito per la credibilità della ricerca, è stata proposta l’istituzione di un database centralizzato in cui ogni autore posti la propria dichiarazione, accessibile a redattori e lettori. Un tale sistema sarebbe fattibile, anche se costoso e complesso, ma escluderebbe in ogni caso tutti gli autori fuori degli Stati Uniti. Inoltre la dichiarazione di CdI può essere rilevante per un articolo e non rappresentare invece un problema per un altro in cui non vi sia alcuna relazione fra lo sponsor e l’autore.
JAMA valuta con attenzione ogni segnalazione di irregolarità o di omessa dichiarazione; vengono contattati gli autori e richieste spiegazioni. Spesso questo è sufficiente ad un chiarimento; in caso contrario, JAMA pubblica le giustificazioni degli autori ed eventuali correzioni. In aggiunta a ciò, le istituzioni accademiche e altre organizzazioni hanno aumentato gli sforzi per pubblicare nei loro siti web le informazioni riguardanti eventuali CdI dei loro dipendenti. Riguardo alla responsabilità della rivista, l’editoriale suggerisce che si debba dare garanzia che quanto riportato negli studi pubblicati non giochi sull’interpretazione dei dati e non esageri sull’importanza dei risultati ottenuti, ma soprattutto che in editoriali e commenti, vi siano giudizi equilibrati su questioni chiave. Gli stessi redattori di JAMA devono vigilare sulla veridicità della loro dichiarazione di CdI, postata sul sito web e aggiornata annualmente. Devono essere esclusi dal processo di peer review o dalla firma di un editoriale se in conflitto con uno specifico argomento o autore. La decisione ultima spetta in ogni caso al capo redattore. In conclusione, una corretta e completa dichiarazione di CdI permette di valutare se possa avere influenzato quanto si è letto, per poi decidere se riportarlo o meno nella pratica clinica.
La mancata dichiarazione di CdI deve essere considerata alla stregua di cattiva condotta nella ricerca scientifica?[6]
La recente notizia che un importante ricercatore accademico non aveva dichiarato di avere ricevuto milioni di dollari per i suoi rapporti con l’industria la dice lunga sulle difficoltà di gestire, ridurre o eliminare il CdI. Sembra che questo individuo si sia semplicemente dimenticato di produrre la dichiarazione, anche se l’istituzione per la quale lavora sostiene di avere un “programma rigoroso per promuovere onestà e trasparenza nella ricerca”. Se personaggi così di spicco non seguono le regole, allora semplicemente non abbiamo più regole. É un annoso problema stabilire se il CdI abbia influito o meno sulla validità di una ricerca, certo è che ha giovato all’industria farmaceutica. É oramai infatti bene accertato che i compensi in danaro generano automaticamente gratitudine ed obblighi e influenzano il comportamento delle persone. Per questo va decisamente eliminata l’influenza che può avere il CdI nella ricerca scientifica.
Nel 2011, il NIH (National Institute of Health) ha emanato nuove linee guida sulla cattiva condotta scientifica e molte istituzioni accademiche le stanno applicando. É previsto che ogni ricercatore che chiede fondi pubblici debba premettere una dichiarazione trasparente e che l’istituzione che li concede debba prima stabilire se i dati forniti possano influire negativamente sulla ricerca stessa. É possibile anche un’azione retrospettiva in tali termini, in caso di mancata dichiarazione scoperta tardivamente. Tutte queste procedure sono a carico delle istituzioni pubbliche e sotto la loro responsabilità, fino all’obbligo di richiedere al ricercatore di pubblicare i dati relativi ai suo CdI, ovvero imporre anche sanzioni. Tuttavia, chi contravviene all’obbligo è in genere anziano e molto attivo nella ricerca, per cui sanzionarlo diviene un’operazione difficile, specie se ricopre cariche importanti all’interno dell’istituzione stessa (riferimento a Baselga e ai suoi incarichi dirigenziali presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center). D’altra parte, se la sanzione arriva tardivamente, a ricerca già pubblicata, l’effetto deterrente è risibile. In ogni caso, omettere relazioni commerciali significative con lo sponsor equivale a fornire una falsa immagine del contesto in cui la ricerca si è svolta alle istituzioni accademiche, ai redattori della rivista che pubblica e ai lettori; alla fine equivale a falsificare i risultati.
Ogni volta che vi siano accuse di interessi commerciali non dichiarati scatta una procedura federale ben codificata che coinvolge un comitato ad hoc. Una volta accertata, la mancata dichiarazione deve essere considerata in aperto contrasto con l’obbligo sottoscritto dagli autori di minimizzare ogni bias nel lavoro prodotto. Il comitato deve inoltre stabilire se vi sia stata piena consapevolezza o soltanto negligenza. In ogni caso, la cattiva condotta nella ricerca scientifica va considerata come qualcosa che mina alla base la credibilità del ricercatore e di tutta la sua carriera scientifica. É tempo che il CdI venga preso maggiormente sul serio dalla comunità scientifica; solo così il fenomeno si potrà ridurre, incrementando parallelamente la fiducia del pubblico.
La lettera di Baselga al JAMA
Nella lettera,[7] Baselga si assume ogni responsabilità per la mancata dichiarazione di CdI riguardo all’articolo del settembre 2017 in cui scriveva “nothing to disclose”. Baselga elenca poi le aziende con le quali ha avuto un qualche rapporto istituzionale e/o finanziario:
- Roche/Genentech: emolumenti e rimborso viaggi (rimborso definito “ragionevole”).
- Novartis e Eli Lilly: emolumenti per consulenze e rimborso viaggi.
- Infinity Pharmaceutical, Varian Medical System, Bristol-Myers Squibb, Foghorn Therapeutics: componente della direzione aziendale.
- PMV Pharma Biotecnologies, Juno Therapeutics, Grail, Seragon (poi Roche), ApoGen Biotechnologies, Northern Biologics: consulente scientifico.
- Tango: emolumenti vari e possesso di azioni come co-fondatore.
- Venthera: co-fondatore.
- Memorial Sloan Kettering: ricercatore per due brevetti di farmaci, rispettivamente per il trattamento di malformazioni vascolari e tumore mammario.
Alla fine della lettera Baselga si augura che quanto dichiarato possa servire ai redattori e ai lettori per valutare la sua attività di ricercatore della quale dichiara di essere fiero.
Libera traduzione e note di Giovanni Peronato
[1] Ornstein C, Thomas K. Top cancer researcher fails to disclose corporate financial ties in major research journals. New York Times, September 8, 2018 https://www.nytimes.com/2018/09/08/health/jose-baselga-cancer-memorial-sloan-kettering.html
[2] https://www.nytimes.com/2008/10/04/health/policy/04drug.html
[3] https://www.nejm.org/doi/suppl/10.1056/NEJMoa1502309/suppl_file/nejmoa1502309_disclosures.pdf
[4] Bauchner H, Fontanarosa PB, Flanagin A et al. Scientific misconduct and medical journals. JAMA Published online October 19, 2018 doi:10.1001/jama.2018.14350
[5] Bauchner H, Fontanarosa PB, Flanagin A. Conflicts of interests, authors, and journals: new challenges for a persistent problem. JAMA Published online October 26, 2018 doi:10.1001/jama.2018.17593
[6] Botkin JR. Should failure to disclose significant financial conflicts of interest be considered research misconduct? JAMA Published online October 26, 2018 doi:10.1001/jama.2018.17525
[7] Baselga J. Failure to disclose conflict of interest in article published in JAMA on detection of cancer-related genes. JAMA Published online October 26, 2018 doi:10.1001/jama.2018.16961