Ne avevamo parlato per la prima volta due anni fa e abbiamo ripreso più volte il discorso. Il BMJ ritorna ora sull’argomento con un articolo firmato da due ricercatori dell’università di Bergen.[1] Curiosa la domanda del titolo: quanta salute si può comperare con una tonnellata di CO2?
Mentre si sta cercando di contenere l’aumento della temperatura globale e di far fronte ai cambiamenti climatici riducendo le emissioni di gas serra, l’orologio carbonico continua a ticchettare e di ciò è in parte responsabile la sanità. Il sistema sanitario ha infatti la più alta impronta carbonica (vedi riquadro per la definizione di alcuni termini) nel settore dei servizi, contribuendo al 4-5% delle emissioni globali, più di trasporto aereo e traffico navale messi assieme. Il maggior contributo proviene da farmaci (in particolar modo dalle bombolette spray), gas anestetici, trasporto di personale e pazienti, sistemi di riscaldamento e raffreddamento, apparecchiature elettriche, cibo e approvvigionamento di alimenti, e naturalmente sprechi per cure non necessarie.
Qualcosa si può fare già da subito, come la costruzione di edifici più efficienti, l’uso di energie rinnovabili, di trasporti elettrificati, migliorando l’allocazione delle risorse sul risparmio energetico. La riduzione dell’impronta carbonica deve essere una priorità. Bisogna arrivare a emissioni zero prima che finisca il nostro budget carbonico. Molte sono le organizzazioni che devono cooperare, ma è ancora poco chiaro quali siano le decisioni politiche per raggiungere l’obiettivo e quali possano essere le priorità di intervento rispetto ad altri settori. Per aiutare medici, amministratori e responsabili politici a identificare i percorsi più virtuosi ed efficaci per raggiungere l’obiettivo sanità a zero emissioni, gli autori dell’articolo propongono tre livelli decisionali.
1. Decisioni cliniche
L’impronta carbonica in sanità è influenzata da molti fattori, tra i quali le decisioni cliniche, che possono comportare minori emissioni di CO2. Alcune di queste sono a costo zero e non arrecano svantaggio ai pazienti, come modificare gli inalatori per l’asma o scegliere gas anestetici di minor impatto carbonico. Si può fare da subito. Altra tempistica richiedono misure per combattere l’eccesso di trattamento, implementare la telemedicina e rafforzare la prevenzione in generale. Meno ricoveri meno emissioni. Qualcuno ci ha provato con successo, per esempio attuando isterectomie laparoscopiche con anestetici meno impattanti sull’ambiente, usando strumentazione riusabile ed elettricità da fonti rinnovabili. È necessaria una ricerca approfondita su come si possa risparmiare emissioni carboniche in tutti i settori della medicina-chirurgia, senza compromettere la qualità dell’assistenza. Bisogna confrontare procedure alternative, per esempio una laparoscopia convenzionale, che riduce le emissioni del 30% rispetto a una robot assistita. È vero che quest’ultima comporta una degenza più breve e in qualche caso viene preferita dal paziente, ma è più costosa e inquinante e non ci sono prove sicure che sia più performante o riduca le complicanze. In questo senso dovrebbero essere riviste tutte le metodiche che prevedono più di un’alternativa. I medici dovrebbero contribuire al cambiamento attraverso un uso evidence-based del loro operato, producendo linee guida ad hoc, influenzando positivamente le società scientifiche di appartenenza, promuovendo più prevenzione.
2. Decisioni sulla programmazione
Si stanno producendo nuove analisi per calcolare l’impatto ambientale della sanità a partire da interi complessi ospedalieri fino alle singole procedure. Bisogna che gli ospedali inizino a programmare le priorità da seguire. Risparmiando emissioni si può produrre più salute senza gravare sul budget carbonico. In uno studio degli anni ’90 si esaminava quanta salute si sarebbe potuto comperare con un milione di dollari. Sulla falsa riga di questo approccio, gli autori hanno provato a calcolare quanti DALYs si potrebbero guadagnare per ogni tonnellata di CO2 risparmiata.
Con questa simulazione hanno constatato che se ne può comperare un sacco, anche se con notevole variabilità tra gli interventi considerati. Ad esempio, c’è una differenza di mille volte nel rapporto costi in CO2 e beneficio in DALYs fra un taglio cesareo eseguito in emergenza e una prostatectomia robot assistita. Nel primo caso il valore è molto elevato poiché si tratta di un intervento salvavita, mentre nel secondo i vantaggi rispetto alla metodica laparoscopica tradizionale sono marginali, ma con un’impronta carbonica del 30% più alta. Una rassegna completa sulle emissioni di CO2 di diversi interventi aiuterebbe i decisori politici e amministrativi a scelte più green.
3. Decisioni in una prospettiva globale
Se ora affrontiamo il problema da un punto di vista globale, vediamo che le prospettive sono diverse a seconda del reddito di una nazione. Mentre nei paesi ad alto reddito la sfida consiste nel regolare la domanda, ridurre i costi ed evitare gli sprechi, nei paesi a basso reddito la sfida principale consiste nel far fronte alle esigenze sanitarie di base insoddisfatte. Se consideriamo il rapporto fra emissioni di CO2 pro capite in sanità e necessità primarie di salute insoddisfatte, avremo una proporzione inversa a seconda del PIL, elevate nel primo caso e molto ridotte nel secondo nei paesi ad alto reddito. L’inverso, invece, poche emissioni prodotte e tanti bisogni insoddisfatti, nelle regioni più deprivate che sono anche le più esposte ai danni per i cambiamenti climatici. Nei paesi ad alto reddito le emissioni carboniche per abitante sono il quadruplo rispetto ai paesi a medio reddito e di 70 volte più elevate rispetto a quelli a basso reddito, pur
con differenze regionali consistenti. Negli USA, ad esempio, le emissioni per abitante sono il triplo della media dei paesi a reddito elevato, in parte per i notevoli sprechi di sanità (4 milioni di ricoveri ospedalieri all’anno in USA non sono considerati necessari).[2] Consentendo di spen-dere una parte maggiore del budget carbonico in contesti a reddito più basso e impegnandosi in una definizione delle priorità per ridurre rapidamente l’impronta carbonica sanitaria in contesti a reddito più elevato, è possibile ottenere maggiori vantaggi in termini di salute in modo più equo ed efficiente. Non esistono calcoli precisi, ma se fosse il 15% del totale il consumo di sanità senza benefici in Europa, risparmiandolo si potrebbero equilibrare le emissioni di CO2 dei paesi dell’Africa sub-sahariana, regione tragicamente colpita dai mutamenti climatici e con una popolazione due volte più numerosa. Una ragione in più per tenere sotto controllo i nostri sprechi, la cosiddetta healthcare overconsumption. Molti paesi a basso e medio reddito hanno bisogni sanitari insoddisfatti, invecchiamento demografico e popolazione in crescita (la popolazione dell’Africa subsahariana crescerà dal miliardo di oggi a 3,5 nel 2100), con un costante aumento delle emissioni carboniche legate all’assistenza sanitaria. Costruire più infrastrutture sanitarie ed elargire più servizi in questi paesi comporterà un maggiore utilizzo di materiali, attrezzature, medicinali, con più emissioni carboniche. Ma nei paesi a basso e medio reddito non si può bloccare la crescita sanitaria imponendo minori emissioni. Questo costo dovrebbe ricadere sui paesi ad alto reddito e ad alta responsabilità.
Il percorso verso zero emissioni deve essere tracciato in modo equo e solidale. Incorporare l’impronta di carbonio nella definizione delle priorità sanitarie potrebbe aiutare a mantenere la promessa di un’assistenza sanitaria a zero emissioni a livello globale. Nonostante la classe politica abbia dimostrato una notevole pigrizia nel ridurre le emissioni carboniche in sanità, altre istituzioni e governi nazionali (tra cui India, Africa, Brasile e Australia) hanno chiesto all’ONU di stabilire dei criteri sul come procedere (per l’Europa hanno aderito solo Danimarca, Francia, Germania e Grecia, mentre l’Italia non compare nell’elenco, ndr).[3] Per affrontare il cambiamento climatico sono stati proposti approcci di mercato, anche se non coinvolgono direttamente il settore sanitario. Alcuni economisti, ad esempio, sono favorevoli ai sistemi carbon tax o emission cap, che teoricamente potrebbero portare a un uso più efficiente delle risorse. Tuttavia, dopo decenni di negoziati internazionali, questo approccio è stato ritenuto carente e si dovrà proseguire su altre strade. Recentemente il NICE britannico si è detto pronto a fornire linee guida in tal senso. I decisori in sanità devono impegnarsi da subito ad allocare le risorse su scelte al minor impatto ambientale possibile.
A cura di Giovanni Peronato
1. Bhopal A, Norheim OF. Priority setting and net zero healthcare: how much health can a tonne of carbon buy? BMJ 2021; 375:e06719
2. https://www.saluteinternazionale.info/2018/10/lo-spreco-in-sanita/