1984: i buoni propositi del New England Journal of Medicine

Il 1984 non è solo l’anno in cui George Orwell ambienta il suo più famoso romanzo, ma anche la data in cui il NEJM pubblica un editoriale dove si parla di conflitto di interessi (CdI). Sembra sia la prima volta in assoluto che questo temine è stato usato in una rivista biomedica. Ecco alcuni passaggi significativi.[1]

Negli anni più recenti, con le nuove scoperte scientifiche, sta diventando sempre più pervasivo, complesso e problematico il legame fra aziende farmaceutiche e medici. Per questi ultimi non è soltanto possibile avere un finanziamento per le proprie ricerche, ma anche ricevere danaro per consulenze o essere direttamente cointeressati attraverso il possesso di azioni. Una benevola o malevola recensione di un farmaco o apparecchio medicale ha provocato in più di un’occasione notevoli movimenti di borsa. Se gli autori di questi articoli hanno legami finanziari con le case farmaceutiche ne può derivare un CdI.

Non si deve mai arrivare a pensare che i ricercatori abbiano legami venali (consciamente o meno) o ricevano incentivi economici che possano influenzare il disegno e la condotta dei loro studi, l’interpretazione dei risultati o il modo di riportarli. Quello che mi interessa oggi non è tanto discutere di questo argomento in generale, bensì quale atteggiamento può adottare il nostro giornale, dal momento che non ha una politica riguardo questa materia.

I CdI non sono necessariamente finanziari. Il desiderio di pubblicare per primi, di ricevere la considerazione dei colleghi, di poter ottenere avanzamenti di carriera, possono altrettanto influenzare il comportamento di un ricercatore. I manoscritti che giungono al nostro giornale devono essere selezionati esclusivamente in base al merito, non per considerazioni commerciali o altre motivazioni. Il pubblico sostiene la ricerca anche per la fiducia nell’integrità dei ricercatori stessi. Se vi è solo il sospetto di legami commerciali, la credibilità degli autori ne soffrirà immancabilmente. Rivelare i propri legami con un’azienda farmaceutica a margine di una pubblicazione è interesse di tutti, legittima le preoccupazioni, protegge la credibilità e reputazione di chi scrive e fornisce al lettore l’informazione che desidera.

Un esempio di questo viene proprio da un articolo pubblicato su questo numero della rivista, dove gli autori risultano essere dipendenti dell’azienda che produce il test in questione. Ma ciò è stato chiaramente indicato in una nota a margine. Si propone che tutti gli autori che vogliono pubblicare alleghino al manoscritto una lettera in cui svelino volontariamente eventuali CdI. Una volta che i peer reviewers abbiano approvato il manoscritto in anonimo, la redazione deciderà se quanto dichiarato abbia un rilievo tale da essere pubblicato. Ci aspettiamo un consenso quasi unanime da parte dei ricercatori e che si assoggettino in buona fede a questa consuetudine. Implementeremo in futuro questa politica e i commenti dei lettori saranno benvenuti.

E poi? Nel febbraio del 2000 Marcia Angell, allora redattrice capo da 3 anni, si scusava con i lettori per aver pubblicato sotto la sua direzione una ventina di articoli su farmaci in cui i CdI degli autori erano palesi.[2] Qualche mese dopo la stessa Angell tornava sull’argomento denunciando il proliferare dei CdI nel mondo accademico americano con un editoriale dal titolo inequivocabile: L’accademia è in vendita?[3] Nel giugno del 2000 rassegnava le dimissioni e qualche anno più tardi, intervistata dalla Boston Review, giustificava il suo gesto rammaricandosi perché i CdI avevano superato il livello di accettazione.[4] Si riferiva in particolare all’ultimo articolo uscito sotto la sua direzione dove, se pubblicata in cartaceo, la disclosure degli autori avrebbe occupato un numero di pagine pari al testo dell’articolo stesso. Il primo autore aveva ricevuto, solo nell’ultimo anno, un milione di dollari dalla stessa azienda che produceva il farmaco in questione.

Nel 2005 il gruppo redazionale del NEJM esprimeva forte preoccupazione in quanto si era accorto con 5 anni di ritardo che gli autori avevano modificato poche ore prima della pubblicazione un RCT sul rofecoxib, poi ritirato dal commercio nel 2014 dopo aver causato migliaia di eventi cardiovascolari, allo scopo di far apparire meno evidente il rischio di infarto nel gruppo che aveva assunto il farmaco. Nel 2015 abbassava ancora la guardia con tre articoli e un editoriale in cui si sosteneva sostanzialmente che industria farmaceutica e medici sono partner naturali per necessità della scienza. Sottolineare continuamente la nocività dei CdI può creare steccati che aumentano la diffidenza del pubblico. Così scriveva la giovane cardiologa corrispondente della rivista, Lisa Rosenbaum:[5] la separazione fra industria e pratica clinica può ritardare la ricerca e l’approvazione di terapie innovative di cui molti pazienti hanno necessità. Veniva coniato allo scopo il termine di pharmascold (farmacritico), sostenendo che parlar male dell’industria era diventata ormai una moda per farsi considerare, ma che era tempo di rivedere gli standard rigorosi per la pubblicazione di un articolo. I CdI sono stati demonizzati, proseguiva, e scambiati tout court per corruzione, creando un clima ostile e perdita di fiducia del pubblico. La strada maestra è una corretta collaborazione fra medici e industria, perché se allontaniamo i rappresentanti del farmaco dalle nostre corsie forse vi saranno ritardi nell’applicare terapie innovative.

Alla fine il NEJM si è trovato quasi impossibilitato a obbedire alle sue stesse norme di pubblicazione se voleva espandere il potere della rivista. Più è ampio il business, minore è la possibilità che una rivista biomedica possa affrancarsi dalla dipendenza dall’industria. Gli stretti legami di quest’ultima con i medici della regione sono esemplificati dal loro fatturato del 2015, mediamente 1,7 milioni di dollari per ciascuno dei 23.815 professionisti esercitanti nel Massachussetts.[6]

A cura di Giovanni Peronato

1. Relman AS. Dealing with conflicts of interest. NEJM 1984;310:1182-3

2. Angell M et al. Disclosure of authors’ conflicts of interest: a follow-up. NEJM 2000;342:586-7

3. Angell M. Is academic medicine for sale? NEJM 2000;342:1516-8

4. http://bostonreview.net/angell-big-pharma-bad-medicine

5. Rosembaum L. Beyond moral outrage: weighing the trade-offs of COI regulation. NEJM 2015;372:2064-8

6. https://www.recentiprogressi.it/archivio/1940/articoli/21082/

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