Poter escludere non aiuta a diagnosticare

Escludere invece di cercare selettivamente

Il mio dottore mi dice che non è niente ma che con la RM potremo escludere un problema serio” è un incipit frequente in visite al cui esordio vi è la richiesta di effettuare un esame, più frequentemente che l’esposizione di un sintomo.

La richiesta di quale sia effettivamente il problema da indagare può esitare in risposte vaghe, improntate a mutuare un lessico tecnico, un cattivo “medichese” frutto di frequentazioni televisive: “Ho parestesie alla gamba, ho avuto un attacco di panico ma potrebbe essere angina, è una neurite presente da anni”, che consegna al medico un (sotto)prodotto finito. Si tratta dell’interpretazione precostituita dei propri sintomi esposta in un lessico considerato accettabile al sanitario, nello sforzo (riuscito) di usare le sue parole, prima che lui apra bocca. La distanza fra descrizione e interpretazione non è chiara per molti e l’equivoco è il risultato di questa comunicazione modellata sui luoghi comuni della presunta informazione medica in cui prevale la tendenza a “escludere”. Non a formulare un’ipotesi diagnostica, valorizzando l’anamnesi e gli elementi di semeiotica manuale per procedere poi alla mirata richiesta di esami: niente di tutto questo, ma solo esami applicati a timori e supposizioni poco supportate, un generico rivalutare a oltranza pur di poter confezionare l’assenza di diagnosi (“Non c’è niente, stia tranquillo”).

Screening di massa per “escludere”

Nell’immaginario collettivo, uno screening di massa rappresenta al massimo grado il desiderio di escludere, per dire ciò che non c’è, che è sempre molto, ma molto di più di quello che c’è: entrare in quest’ordine d’idee significa non mettere mai fine alle verifiche. Gli screening di massa in oncologia sono il cavallo di battaglia di H.Gilbert Welch che con Overdiagnosed, scritto con Lisa Schwartz e Steven Woloshin, pubblicato nel 2012, [1] ha diffuso la discussione sull’overdiagnosis (sovradiagnosi o eccesso diagnostico) che in precedenza era un tema di nicchia. [2] Lo scopo dello screening di un tumore è quello di ridurne la mortalità, nel presupposto che l’individuazione a uno stadio pre-clinico consenta trattamenti più efficaci. A cure sempre più efficaci corrisponde la riduzione dell’utilità degli screening. Ma quanto e quando è vero? Gilbert Welch lo spiega con le seguenti argomentazioni in un recente articolo. [3]

Uccelli, conigli e tartarughe (riferimento a G. Crile Jr)

La natura biologica dei tumori si associa a comportamenti differenti per cui alcuni sono immediatamente attivi quando riconoscibili (uccelli), e pertanto lo screening non aiuta, ma può farlo un trattamento efficace, altri sono riconoscibili prima di essere attivi (conigli), e su questi lo screening può essere efficace, altri sono quiescenti e non sono destinati ad attivarsi (tartarughe), per cui individuarli non è sensato. Nello specifico paziente, raramente si chiarisce se uno screening ha condotto a individuare una condizione quiescente che non richiede trattamento, anzi prevale la tendenza a trattare comunque e mettere in atto un follow up. Inoltre, in caso di falso positivo, non è frequente la comunicazione dell’errore, ma piuttosto di una larvata predisposizione che rafforza l’opportunità di proseguire nei controlli.

Rispetto allo screening per tumori della mammella, della prostata, della tiroide o della pelle, Welch riporta che è più facile sperimentare un danno da screening piuttosto che un vantaggio. Per 1000 soggetti sottoposti a screening per 10 anni si riuscirà a ottenere di evitare 1 decesso, ma a quale costo per gli altri 999 soggetti? Nel caso della mammella è stata calcolata una probabilità del 61% di richiamo per un falso positivo in 10 anni per una donna che dai 40 anni si sottoponga allo screening annuale, del 41% se lo screening è biennale.

Per riconoscere l’overdiagnosis vanno considerati e riconosciuti due contesti epidemiologici:

Invece, coloro che sopravvivono a 5 anni da una diagnosi precoce tendono ad attribuirlo ai benefici dello screening, senza considerare che la mortalità è restata invariata, ovvero rappresentano un paradossale incentivo a proseguire lo screening. [4]

Secondo Welch, gli screening condotti sulla popolazione generale rappresentano un modo per distrarre risorse se “le prestazioni del medico sono valutate per quanto è testato il sano piuttosto che per quanto è curato il malato”. L’alternativa sarebbe di considerare gli screening su popolazioni selezionate ad alto rischio neoplastico, in modo che l’individuazione selettiva del rischio possa precedere lo screening rendendolo più efficace. Si tratta di un rovesciamento di prospettiva che richiede un impegno clinico preliminare allo screening. Ma da questo siamo molto lontani dato l’uso “politico” degli screening per i tumori, presentati come fattivo impegno di salute pubblica, rassicurante garanzia di esclusione delle malattie più temute.

A cura di Mariolina Congedo, neurologo

1. Welch HG, Schwartz L, Woloshin S. Overdiagnosed: making people sick in the pursuit of health. Beacon Press, 2012

2. Bioethics and Palliative Care in Neurology Study Group of Italian Society of Neurology. Ethical considerations regarding overinvestigation in neurology. Italian Journal of Neurological Sciences 1993;14:97-100

3. Welch HG. Cancer Screening—The Good, the Bad, and the Ugly. JAMA Surg. Published online April 6, 2022. doi:10.1001/jamasurg.2022.0669

3. Hubbard RA, Kerlikowske K, Flowers CI et al. Cumulative probability of false-positive recall or biopsy recommendation after 10 years of screening mammography: a cohort study. Ann Intern Med 2011;155:481-92

4. Questo esito dello screening di massa, con riferimento al tumore della prostata, è spiegato in modo brillante in Iaboli L, Caselli L, Lobaccaro G, Madoglio M. “Doctor G, una graphic novel”, 2016

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