Le riviste scientifiche dovrebbero smetterla di pubblicare ricerche sponsorizzate dall’industria farmaceutica? È un quesito che il BMJ ha posto a Richard Smith (già direttore della rivista), Peter Gøtzsche (direttore del centro Cochrane di Copenhagen) e a Trish Groves (responsabile delle ricerche del BMJ); i primi due hanno risposto con un “sì”, il terzo con un “no”.(1) Vediamo di sintetizzare il loro ragionamento.
Smith e Gøtzsche ritengono che la questione sia molto simile alla decisione del BMJ e di altre riviste di non pubblicare ricerche finanziate dall’industria del tabacco; i farmaci rappresentano la terza causa di morte, specialmente a causa delle ricerche false pubblicate; si sa bene, infatti, che i risultati favorevoli ai farmaci (che si traducono in miliardi di euro di fatturato) derivano quasi sempre da ricerche sponsorizzate della industrie. Citano parecchi esempi, ma chi ne volesse avere ancora di più può leggere due libri.(2,3) Si sa altrettanto bene, sostengono, che la metà delle ricerche non sono pubblicate proprio perché non riescono a produrre i risultati attesi dalle ditte. La differenza con l’affaire degli studi finanziati con i soldi dell’industria del tabacco è che quelli sono comunque rari, mentre le ricerche sui farmaci finanziate da Big Pharma costituiscono i 2/3 delle ricerche pubblicate da Lancet e dal NEJM. Big Pharma spende milioni di dollari per la riproduzione degli articoli (i cui autori sono spesso opinion leaders che hanno solo firmato e non scritto l’articolo) e per distribuirli ai medici prescrittori che così sono ingannati proprio dall’autorevolezza della rivista che ha pubblicato i dati: insomma, un gigantesco conflitto d’interesse. Smith e Gøtzsche pensano che ci possa essere un nuovo modello da implementare. Un modello basato sulla trasparenza nell’impostazione degli studi a partire dalla loro proposta; si dovrebbe prima presentare sul web una revisione sistematica su quanto già si conosce dell’argomento; si dovrebbero chiaramente enunciare i metodi e i modelli statistici che si vorrebbero applicare; i dati sui quali lavorare dovrebbero essere a disposizione di tutti e non dell’industria (come quasi sempre avviene), in modo che chiunque, in tutte le fasi della ricerca, possa intervenire; il ruolo delle riviste sarebbe solo quello di pubblicare i risultati delle revisioni sistematiche e l’analisi dei dati, anche contrastanti, da parte di gruppi indipendenti; le riviste, inoltre, dovrebbero fare a meno di qualsiasi sponsorizzazione di Big Pharma, come fa Prescrire. Risultato? I farmaci non sarebbero più la terza causa di mortalità dopo le malattie cardiovascolari e il cancro!
Anche Trish Groves nel motivare la sua risposta negativa parte dall’esempio delle ricerche sponsorizzate dall’industria del tabacco che, se pur vero che, come Big Pharma, mira a far soldi, ha obiettivi molto diversi. Big Pharma, difatti, produce e vende prodotti destinati al miglioramento della salute, così come le riviste si sforzano di pubblicare lavori che contribuiscano a migliorare lo stato di salute; l’industria del tabacco, al contrario, vende prodotti che nuocciono alla salute. A meno che, scrive Groves, non vogliamo estremizzare e dire che i farmaci, come le sigarette, sono prodotti per uccidere il consumatore. Groves è consapevole dei problemi delle ricerche sponsorizzate dall’industria, ma pensa (citando Garattini) che si potrebbe intervenire utilizzando alcune strategie: coinvolgere i pazienti nel definire l’agenda della ricerca, rendere un obbligo di legge la trasparenza nella valutazione di un farmaco, richiedere risorse indipendenti per la valutazione dei farmaci (da parte dei sistemi sanitari nazionali e delle agenzie nazionali dei farmaci), e richiedendo la prova di un valore aggiunto per tutti i nuovi farmaci. Una maggiore apertura potrebbe contribuire a trasformare l’immagine di Big Pharma e, in cambio, i governi potrebbero estendere i tempi di brevetto. Una soluzione per la trasparenza degli studi potrebbe essere quella proposta dalla campagna AllTrials. Proprio in questa ottica, conclude Groves, il BMJ sta pubblicando studi dall’iniziativa RIAT (una sorta di ripristino degli studi finora invisibili e abbandonati), e sta invitando gli accademici che trovano prove precedentemente non pubblicate a scrivere e a pubblicare i dati, se gli investigatori originali non vogliono farlo; inoltre il BMJ intende promuovere la pubblicazione di ricerche con risultati negativi e trials di efficacia comparativi; e si impegnerà a pubblicare dati provenienti dall’industria solo se avrà garanzie circa la possibilità di accedere ai dati. E conclude con una domanda: noi redattori abbiamo paura o non siamo in grado di estendere il divieto di pubblicazione anche alle ricerche finanziate dall’industria del farmaco perché i nostri giornali ricevono soldi? No, non è questo il motivo. Come la direttrice del BMJ, Fiona Godlee, ha detto nella sua risposta alla sfida di Richard Smith: “Se questi sforzi non portano al più presto a un cambiamento epocale nel modo con cui vengono prodotti gli studi finanziati dall’industria, il BMJ potrebbe decidere di interromperne la loro pubblicazione.”
P.s. L’appendice all’articolo, alla voce “conflitti di interesse degli autori”, ricorda che sia Groves che Smith ricevono uno stipendio dal BMJ (il primo come redattore, il secondo come ex direttore, quindi come una sorta di pensione) i cui proventi provengono anche dai finanziamenti dell’industria farmaceutica.
1. Smith R, Gøtzsche PC, Groves T. Should journals stop publishing research funded by the drug industry? BMJ 2014;348:g171 doi: 10.1136/bmj.g171
2. Gøtzsche PC. Deadly medicines and organised crime: how big pharma has corrupted health care. Radcliffe, 2013
3. Goldacre B. Bad pharma. Fourth Estate, 2012