Riportiamo qui sotto il testo dell’intervento fatto da Amelia Beltramini a nome di NoGrazie nel corso del workshop nazionale sul consumismo sanitario svoltosi ad Arezzo tra l’11 e il 12 dicembre 2014.
Uno studio pubblicato sul NEJM ha dimostrato che il 94% dei medici ha qualche relazione con le aziende farmaceutiche, che più di un terzo dei medici riceve rimborsi dalle aziende farmaceutiche per i costi associati a incontri ECM, e che oltre un quarto riceve pagamenti per arruolare pazienti nei trials o per consulenze o lezioni.
Il fatto che non ci siano molti dati sul COI (conflitti di interesse) in Italia per medici e giornalisti non vuol dire che il problema non ci sia. Ogni tanto uno scandalo dimostra che il fenomeno è assai diffuso anche in Italia. Tanto per ricordare i più importanti: il recente scandalo sul latte, e quello sull’ormone della crescita. Questo spiega la necessità di un’organizzazione come NoGrazie. Il gruppo è presente su internet (www.nograzie.eu) e su facebook, e ha una mailing list che raggiunge circa 300 iscritti, oltre a una lettera quadrimestrale spedita a circa 1200 persone,
Molti studi hanno dimostrato che il ricevere denaro dalle aziende farmaceutiche o dai produttori di tecnologie, influenza le prescrizioni dei medici: quindi non è vero che questi “contributi” sono a fondo perduto e non interferiscono con la cura dei pazienti. Non solo: per generare questo tipo di gratitudine basta una penna o un invito a pranzo. Quindi gli italiani che finanziano il SSN con la tassazione, hanno il diritto di sapere quali sono i conflitti d’interesse? Qualcuno ritiene di sì:
Negli USA ciò è ormai generalmente accettato: con il Sunshine Act le aziende farmaceutiche e produttrici di dispositivi medici sono obbligate a segnalare annualmente quanto danno ai singoli medici per il loro ruolo di esperti, consulenti, membri dei board scientifici, corsi ECM, ruolo di opinion leader, conferenze e via elencando. Avevano provato a escludere i corsi di formazione, ma per fortuna non ci sono riusciti e questo la dice lunga sull’importanza che le aziende attribuiscono ai corsi ECM come canale di marketing.
L’Australian competition & consumer commission ha deliberato che tutti i trasferimenti di denaro rilevanti (cioè superiori a 120 dollari) fatti a medici devono essere resi pubblici compresi emolumenti per conferenze, consulenze, etc. La Nuova Zelanda ha deliberato analogamente. La Francia, dopo un grande scandalo in cui si è dimostrato il collegamento fra l’ente di controllo francese dei farmaci e un’industria farmaceutica, ha provato a legiferare per un Sunshine Act: meglio che niente, ma anche assai annacquato.
In Italia siamo ai pannicelli caldi. La legge 6 novembre 2012 n 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione) prevede la dichiarazione dei conflitti di interesse nei tre anni precedenti e sanzioni per le dichiarazioni infedeli. A questa sono obbligati i dipendenti pubblici e quindi i dipendenti del SSN e dell’Università, ma se restano nel cassetto del diretto superiore non servono a nulla. Prima di tutto perché nessuno controlla. E in secondo luogo perché questa informazione non giunge ai cittadini.
E sarebbe bello se l’ingegner Marco Masi (Coordinatore educazione, istruzione, università e ricerca Regione Toscana), che ha parlato questa mattina, riuscisse a rendere pubblici i conflitti di interesse dei dipendenti del servizio sanitario regionale toscano, e anche dei dipendenti del Murst convenzionati o finanziati dalla Regione.
Ma basta la trasparenza? Bisogna chiedersi se i conflitti di interesse sono accettabili. Eduardo Missoni (Docente di cooperazione allo sviluppo e salute globale all’università Bocconi di Milano, vice presidente Osservatorio italiano sulla salute globale) questa mattina chiedeva se i COI contraddicono l’obbligo di lealtà nei confronti del SSN. E anche altri pensano che la trasparenza non basti.
Il 28 novembre scorso, il BMJ in un editoriale afferma che a partire dal 2015 arriverà a tolleranza zero sugli articoli educativi con i legami finanziari con l’industria. La trasparenza è essenziale ma non è sufficiente: d’ora in avanti, scrive Fiona Godlee, direttrice del BMJ, saranno accettati solo revisioni e articoli educativi di autori privi di COI.
Nel 2011 un articolo pubblicato sul BMJ dimostrava che nei panel che avevano costruito le 14 linee guida prodotte fra il 2000 e il 2010 negli Usa e in Canada, il 52% aveva COI, dei quali solo una parte era dichiarata. Ma in Italia c’è addirittura chi teorizza che l’industria si accaparra i migliori e il pubblico non può rinunciare al loro contributo e affidarsi solo a chi l’industria non ha cooptato. Come se rifiutarsi di collaborare con l’industria fosse un demerito. Ma questa posizione più volte e da più parti ripetuta, fa certo molto comodo alle aziende e giustifica che le varie commissioni siano piene di COI.
E quando i COI vengono richiesti, c’è chi bara. Enrico Desideri (Direttore generale dell’ASL di Arezzo) questa mattina ha parlato degli HTA (Health technology assessment) come possibile rimedio all’anarchia e alle differenze regionali. Ma bisogna anche verificare chi stende gli HTA e quali sono i suoi COI. Nel giugno 2013 Agenas pubblicava un report HTA sulle Protesi endovascolari per gli aneurismi dell’aorta addominale: analisi dell’efficacia e della costo efficacia, adattamento alla realtà italiana di un HTA scozzese. Tra gli autori Piergiorgio Cao, chirurgo vascolare dell’azienda ospedaliera san Camillo Forlanini di Roma e docente all’università di Perugia. Cao e i cofirmatari nella dichiarazione di conflitti di interesse: “Dichiara di non ricevere benefici o danni dalla pubblicazione, e di non aver posseduto azioni, prestato consulenza o avuto rapporti personali con alcuno dei produttori dei dispositivi valutati in questo documento”. Ma all’inizio di quello stesso anno è a Lipsia nel corso di formazione dal titolo Interventional Course, e in una slide “Disclose consulting Medronic Bolton” e all’inizio dell’anno successivo, nel gennaio 2014 sul Journal of vascular surgery in un paper riammette la consulenza a pagamento con le stesse aziende. Ergo è lecito sospettare che la dichiarazione di conflitti di interesse all’HTA fosse frutto di una botta di amnesia.
Avrà anche le sue ragioni: il finanziamento pubblico della ricerca è quello che è. Ma forse si sta esagerando. Claudio Cricelli (presidente SIMG Società italiana medicina generale) sempre questa mattina ci annunciava che Cergas Bocconi evidenzia un costante spostamento della popolazione verso la medicina privata. Non vorrei che il Cergas avesse i suoi interessi a dimostrarlo. Non sappiamo chi finanzia il centro di ricerca perché non ce lo raccontano, ma sappiamo che nel CDA di Bocconi siedono, solo per fare due esempi chiari: Gianfelice Rocca, presidente del gruppo Techint che a sua volta possiede la catena di cliniche private Humanitas, e Diana Bracco, di Bracco Spa, azienda farmaceutica, ma anche proprietaria del CDI, centro diagnostico italiano di Milano. Domani parleremo dei conflitti della stampa nella diffusione di questa brillante idea della privatizzazione del SSN.
Mi si potrebbe dire che Bocconi è un’università privata e fa quel che vuole. Ma anche il pubblico ha i suoi problemi. Crea sanità, centro di ricerca di un’università pubblica, Tor Vergata, ha appena prodotto il rapporto Crea sanità. È finanziato da 3M Italia, Bayer, Biogen Idec Italia, Boehringer Inghelheim Italia, Daiichi Snakyo Italia, Eli Lilly Italia, Fondazione MSD, GlaxoSmithKline, Janssen Cilag, Novartis Farma. Novo Nordisk, Pfizer Italia, Sanofi Pasteur MSD. Qualcuno mi deve spiegare perché i cittadini italiani devono finanziare l’Università italiana quando è motivato il loro sospetto che i ricercatori arrotondino diffondendo idee a vantaggio di altri.
Ma adesso c’è una nova fonte di problemi e sono i new media. Gianfranco Domenighetti (economista dell’università di Lugano) diceva oggi che le aziende, per espandere il proprio mercato e i profitti, usano incentivi sovente perversi per promuovere la prescrizione e gli acquisti. Degli ultimi incentivi inventati ha parlato un articolo di metà ottobre sul NEJM, Marketing to physicians in a digital world. Negli USA i medici che riportavano di aver ricevuto la visita di un informatore farmaceutico sono passati dal 77% del 2008 al 55% del 2013 (in Italia praticamente tutti i medici ricevono ancora almeno una visita al giorno). Ma se si va a vedere le spese di marketing di Big Pharma si scopre che il 25% dell’investimento è in tecnologie digitali: websites, social media, app mediche e cartelle cliniche elettroniche.
Nella popolazione, e anche fra i medici, è diffusa l’opinione che si può avere tutto gratis o a basso prezzo. Poi si scopre che il gratuito ha un suo modello economico. Nel caso della sanità il passaggio alle aziende delle informazioni raccolte dal comportamento dei medici. Solo un esempio: Epocrates, una app che consente al medico di vedere interazioni fra i farmaci e valutare i dosaggi, negli USA anche sapere quale farmaco è passato da questa o da quella assicurazione, etc. … Un fenomeno solo americano? Abbiamo fatto una verifica in un gruppo di medici; in 24 ore hanno risposto solo in 13, quindi un campione statisticamente non significativo, e se il 46% non conosceva questa app, il 23% la considerava irrinunciabile, molto utile o utile. Nessuno però sapeva che ogni volta che il medico cerca qualcosa su Epocrates l’informazione arriva a un venditore farmaceutico, e tutte queste informazioni sono usate per vendere farmaci specifici che magari non sono i farmaci migliori per quel paziente, influenzando la prescrizione in direzione favorevole all’azienda farmaceutica. Ovviamente Epocrates non prospetta alcuna modificazione dello stile di vita.
Grazie per l’attenzione.