Lavorano in perdita, poveretti!

Riproduciamo un’intervista, che ci sembra interessante, pubblicata il 5 Maggio 2015 su un sito della Bocconi (http://www.viasarfatti25.unibocconi.it/notizia.php?idArt=15306).

 

Medicine senza frontiere. Tutte le sfide di big pharma

La fine dei farmaci blockbuster e le regole dei mercati nazionali sono i banchi di prova dei manager del settore. Dalle alleanze con i competitor alle relazioni istituzionali: ecco la riceta di Massimo Visentin di Pfizer.

 

di Lorenzo Martini

 

Per un attimo anche Milano sembra New York. E non solo perché un insolito cielo blu si riflette sul grattacielo a specchio della sede di Pfizer, in pendant con il celebre ovale della casa farmaceutica. Ma anche perché la distanza tra la casa madre americana e la sua rappresentanza italiana si annulla spesso nelle parole di Massimo Visentin mentre descrive orgogliosamente la presenza dell’azienda nel nostro paese: 2.600 dipendenti, 1,3 mld di euro di fatturato nel farmaceutico, 80,7 mln nella consumer healthcare (farmaci senza prescrizione, vitamine, integratori…), tre siti produttivi che esportano il 75% della produzione all’estero. Milanese, 47 anni, laureato in Bocconi, presidente e amministratore delegato di Pfizer Italia dal maggio 2012, Visentin ha assistito e guidato questa crescita sul territorio, attraversando tutte le rivoluzioni più recenti del settore farmaceutico.

 

“In un decennio, in effetti, è quasi cambiato tutto”, conferma il manager. “La scadenza della protezione brevettuale di molti prodotti, e il conseguente avvento dei generici, ha reso il settore ancora più competitivo, con una varietà di farmaci disponibili che cresce ogni giorno. Non esistono più blockbuster, ovvero farmaci diffusissimi per cure di massa, e la ricerca si è dovuta adeguare, lavorando su prodotti di nicchia, in linea con la personalizzazione delle cure auspicata da molti. La conseguenza principale è che se prima l’industria farmaceutica aveva un approccio muscolare al mercato, investiva moltissimo per avere un prodotto che poteva vendere moltissimo, oggi deve ragionare diversamente. Un nuovo farmaco costa in media 2 miliardi di dollari; per sostenere il rischio che comporta lo sviluppo e l’introduzione sul mercato di una nuova molecola è indispensabile stringere partnership con istituzioni o con altre aziende, che magari un tempo sarebbero state competitor ma con le quali oggi c’è una condivisione dei rischi”.

 

Un prodotto unico, il farmaco, ma mercati molto diversi tra loro per patologie, regolamentazioni, sistemi sanitari. Come si gestisce questo essere globali e locali al tempo stesso?

 

Noi amiamo definirci come una multinazionale con una grande localizzazione, facente parte di un network internazionale. Abbiamo un minimo comune denominatore, portiamo avanti strategie comuni, ma poi le applichiamo diversamente da paese a paese. I contatti con la casa madre americana, comunque, sono frequenti, quotidiani nel mio caso.

 

Esiste un problema nella comunicazione dei farmaci in Italia, per cui ben pochi pazienti sanno dire quale azienda realizza il prodotto che assumono, mentre, per esempio, quasi tutti gli automobilisti conoscono la casa produttrice della vettura che guidano?

 

No, non credo che esista un problema. Almeno non per noi. Quest’effetto è figlio del divieto che c’è, in Europa, di fare comunicazione diretta al pubblico sui farmaci. Probabilmente negli Usa molti più pazienti saprebbero associare i farmaci alle aziende produttrici. Per noi qui in Italia il prodotto è la cosa più importante, la nostra espressione di eccellenza e il nome Pfizer una garanzia di qualità, un valore aggiunto, che deve esserci come assicurazione che tutto sia stato fatto nel rispetto delle regole e al massimo delle possibilità. Il nostro compito più importante è quello di trasferire questo valore ai nostri interlocutori diretti che sono gli operatori sanitari e le istituzioni.

 

A questo proposito, le aziende farmaceutiche devono quasi necessariamente esercitare il proprio potere di lobbying presso le istituzioni. È un meccanismo che forse in Italia è ancora visto con sospetto. Voi come interpretate questo ruolo?

 

Quello che noi facciamo è di veicolare alle istituzioni le informazioni adeguate. Il mercato in cui operiamo non è realmente di libera concorrenza. Al centro del discorso con le istituzioni c’è sempre il costo del farmaco, considerato spesso troppo alto per il Sistema sanitario nazionale. E il meccanismo che ne deriva è quello per cui viene messo a disposizione un certo budget per l’acquisto dei farmaci e, quando questo fondo si esaurisce, tutto il prodotto che manca e che serve è pagato dalle aziende produttrici. Ogni anno arriviamo a un momento, tra ottobre e novembre, che dobbiamo fornire gratis quasi tutto… È una situazione non sostenibile. Per questo noi insistiamo che il paradigma corretto per fare le valutazioni non sia il costo ma il valore che il farmaco porta. Per esempio curando meglio o più velocemente il paziente, e dunque prolungando la sua qualità della vita, diminuendo i giorni di degenza, di malattia e di assenza dal lavoro, il rischio di ricadute, le eventuali invalidità… Non si può continuare a considerare la spesa farmaceutica separata dal resto della spesa sanitaria, occorre integrare tutti i discorsi.

 

Quasi tre anni fa lei descriveva, in una lettera indirizzata al governo, una situazione più o meno analoga… dunque nulla è cambiato?

 

Se ci sono stati dei cambiamenti sono in peggio. L’instabilità politica è un problema drammatico perché ogni primo ministro cambia le regole, cambia le persone, e occorre cominciare da capo. Noi, e parlo anche come presidente dell’Iapg, l’associazione delle 18 aziende farmaceutiche italiane a capitale americano, avremmo bisogno di assicurazioni per tracciare un piano di sviluppo triennale, come siamo tenuti a fare di fronte ai nostri investitori in quanto società quotate in borsa. Non possiamo, dopo due mesi, dire a tutto il mondo che è cambiato il ministro, o la legge, e le promesse sono cambiate. Ed è un peccato che sia così perché il settore è molto rilevante in Italia: come valore della produzione farmaceutica siamo secondi in Europa dopo la Germania, come valore pro-capite addirittura primi.

 

Come reagisce il management della casa madre di Pfizer quando gli racconta questi aspetti del sistema italiano?

 

La domanda che si fanno è: ha senso restare in un paese nel quale, da un certo giorno in poi, non possiamo più vendere i prodotti ma dobbiamo regalarli? Non vorrei allarmare nessuno ma la situazione è destinata anche a peggiorare perché stanno entrando sul mercato dei farmaci nuovi, per esempio nell’oncologia o nella cura dell’Epatite C, per i quali il budget a disposizione si esaurirebbe ancor prima e questo potrebbe suggerire alle aziende, non solo a Pfizer, di distribuire il prodotto solo in alcuni paesi, e non in Italia. Noi speriamo davvero che non si arrivi a questo e faremo di tutto per scongiurarlo, perché si creerebbero delle discriminazioni assurde, per cui il paziente di Mentone si cura e quello di Ventimiglia no. Ma anche le istituzioni devono fare la loro parte.