Dichiarazioni di conflitto di interessi: i conti non tornano

L’attenzione delle aziende farmaceutiche alle attività promozionali è nota da tempo e costituisce un’ampia fetta dei bilanci: si stima che nel 2012 le industrie del farmaco abbiano speso 27 miliardi di dollari per attività di marketing negli USA, di cui 4 nel settore cardiovascolare. Negli USA i medici che ricevono qualsiasi forma di elargizione da parte delle industrie del farmaco per valore superiore ai 10 dollari, compresi i compensi per consulenze e conferenze, le spese relative a viaggi, pasti e intrattenimento, e anche i pagamenti da destinare, su loro richiesta, a enti caritatevoli, sono obbligati alla dichiarazione da una normativa conosciuta come Sunshine ACT (http://www.nograzie.eu/sunshine-act-in-azione-2/#more-655).

 

Anche gli autori che partecipano alla stesura di linee guida (in questa indagine relativa all’ambito cardiologico) sono obbligati a dichiarare qualsiasi relazione che potrebbe rappresentare un conflitto di interesse (CdI). Le dichiarazioni dovrebbero riguardare anche i famigliari. La partecipazione alla stesura delle linee guida non è preclusa del tutto ai medici che dichiarano CdI; tuttavia, le istruzioni dell’American Heart Association (AHA) per la scrittura delle linee guida prevede che la quota degli autori con dichiarazioni sul CdI non sia superiore al 50%.

 

L’indagine ha confrontato le elargizioni ai medici dichiarate da 15 ditte farmaceutiche e le dichiarazioni di CdI dei clinici coinvolti nella stesura delle linee guida dell’AHA tra 2009 e 2012, valutando la corrispondenza tra quanto pagato dalle ditte e le dichiarazioni degli autori. Sono stati ricercati e classificati non solo i pagamenti in denaro, ma anche i viaggi, i pasti, le consulenze, le consulenze retribuite, i regali, i diritti d’autore, i premi di ricerca riconosciuti dalle aziende, ecc. Le molteplici forme di relazione economica tra industria e medici erano ricondotte e suddivise in 4 categorie: pagamenti come relatore, consulente, ricercatore e altro. L’errore a carico dell’autore è stato definito ogni volta che una ditta riportava rapporti finanziari con un autore che non venivano riportati da quest’ultimo. Al contrario, l’errore da parte della società era relativo a quei rapporti che un autore rivelava mentre erano omessi dalla ditta.

 

Tra i 537 autori coinvolti nell’indagine, 102 (19%) dichiaravano una relazione economica, mentre le ditte si fermavano a 64 dichiarazioni (12%), con un basso livello di concordanza tra i dati forniti. Alla voce “consulenze” i dati forniti dagli autori e dalle ditte erano abbastanza simili; il dato peggiorava alla voce “relatore”, mentre i viaggi, i regali, i pasti e i diritti d’autore avevano un livello ancor più basso di concordanza tra le reciproche dichiarazioni. I pagamenti in denaro di 10.000 dollari e più rappresentavano il 34.4% dei 64 pagamenti ed erano considerati consistenti; quelli per cifre inferiori, modesti. I premi versati per le ricerche rappresentavano le cifre più elevate dei pagamenti in denaro, con una media di oltre 66.000 dollari, una deviazione standard di 176.900 e un range di 665-598.808.

 

Chi sbaglia di più nelle dichiarazioni? La differenza nel riportare le relazioni economiche con le ditte ha riguardato sia gli autori delle linee guida sia le ditte e coinvolge tutte le forme di CdI. Le ditte sbagliano 1.3 volte più degli autori nel riportare i possibili CdI, con una percentuale media del 19% rispetto al 12% degli autori. Le differenze nel riportare le relazioni, anche se si considerano le singole categorie, non hanno mai raggiunto la differenza statistica significativa.

 

L’indagine ha alcuni limiti: i dati potrebbero essere falsati da un bias temporale: va considerato che sono state analizzate solo le linee guida dell’AHA che secondo il manuale di pubblicazione prevedevano che gli autori dichiarassero i CdI solo nei due anni precedenti, mentre nella nuova versione del manuale (2011) si invitano gli autori a dichiarare qualsiasi CdI. Un altro possibile limite è rappresentato dalla classificazione fatta dai ricercatori dell’indagine: in un futuro è auspicabile una classificazione concordata in modo da migliorare anche le analisi e la concordanza su quanto entrambi i soggetti dichiarano. La categoria “Altro” (spese di viaggio, pasti, regali, diritti d’autore, iscrizioni a congressi) era quella che gli autori erano meno propensi a dichiarare, forse perché non è percepita come CdI a tutti gli effetti. Gli autori dell’indagine sottolineano che il Sunshine ACT consente ai medici di correggere e contestare i rapporti con le ditte, mentre ciò non è stato possibile nella stesura delle linee guida dell’AHA.

 

Un sistema di verifica e monitoraggio dei rapporti che corrono tra le ditte e i medici che elaborano linee guida è auspicabile e manca in Italia; le caratteristiche di questo sistema dovrebbero essere la tempestività, la trasparenza, la diffusione. Inoltre, le dichiarazioni sui rapporti tra medici e ditte dovrebbe riguardare un ampio arco di tempo.

 

Ma tutto questo è considerato sufficiente? In un domani in cui tutti gli autori delle linee guida (in ambito cardiologico o in un’altra specialità) dovessero dichiarare tutti i loro CdI, anche quelli di minor rilievo e più banali, il paziente si sentirebbe più sicuro o più soddisfatto? Migliorerebbe il suo senso di fiducia nelle indicazioni fornite? Avremmo delle linee guida migliori? Forse il problema è rappresentato (ancora) dall’influenza delle ditte sulle scelte dei medici (e dei pazienti) e da come vengono orientate. Rendere questo rapporto trasparente e completo non lo risolve, né lo giustifica.

 

Libera traduzione, adattamento e commento a cura di Alberto Apostoli

 

Articolo originale: Alhamoud HA, Dudum R, Young HA, Choi BG. Author self-disclosure compared with pharmaceutical company reporting of physician payments. Am J Med 2016;129(1):59-63