Covid-19 e tabacco: relazione intrigante, conflitto di interessi lampante

Nelle Lettera di Maggio 2021, con il titolo “Conflict of interest: none”, riferivo del ritiro di un importante articolo, apparso su European Respiratory Journal, a causa della mancata dichiarazione di CdI di due degli autori, risultati al servizio dell’industria del tabacco. Il BMJ è ritornato sull’argomento per fare maggiore chiarezza.[1]

All’inizio della pandemia, i media riportavano la notizia che i fumatori erano sottorappresentati fra i malati di Covid-19; da qui la domanda: il fumo è protettivo? Il tutto ha origine da due pre-print pubblicati in aprile 2020. Nel primo, un gruppo di ricercatori francesi riportava che solo il 5% dei pazienti Covid-19 era risultato fumatore; nel secondo, si ipotizzava che la nicotina potesse interagire con i recettori ACE2 rendendo più difficoltoso l’attacco del virus. Le conclusioni lasciavano intendere che la nicotina, o i suoi sostituti, potesse avere una qualche efficacia contro le infezioni virali acute. Spiked, una rivista periodica londinese ‘libertaria’, riprendendo queste ricerche, si spingeva oltre. “Smoke fags, save lives”, letteralmente “le cicche salvano la vita”, titolava l’articolo di Christopher Snowdon, direttore della sezione Lifestile economics presso un istituto sponsorizzato da Big Tobacco. A questo punto l’OMS, temendo di perdere anni di battaglia contro il fumo, controbatteva che, oltre alla responsabilità di milioni di morti per cancro e altre malattie, il fumo si associa a infezioni da Covid-19 più gravi e a una maggiore mortalità tra i pazienti ospedalizzati. Tra gli studi citati dall’OMS, uno in particolare, basato sul registro dati di OpenSafely, aveva stabilito che il fumo è correlato a un 14% in più di mortalità da Covid-19.

Alcuni gruppi di sorveglianza sull’industria del fumo, i cosiddetti watchdogs, rimasti impressionati dai due pre-print sui possibili effetti positivi della nicotina, avevano avanzato sospetti su uno degli autori, che in passato aveva ricevuto fondi dal CTR (vedi riquadro). Si tratta del famoso neurobiologo francese prof. J-P Changeux. Nel 2012, con un vero scoop, il quotidiano Le Monde aveva scovato tra i documenti di Big Tobacco una lettera datata 1994 nella quale Changeux, su carta intestata e in qualità di direttore dell’Istituto Pasteur, chiedeva al CTR un finanziamento di 250mila dollari, poi interamente elargito, per un progetto di tre anni al fine di studiare gli effetti della nicotina sul cervello dei topi. Al termine dei tre anni Changeux riceverà ancora fondi per le sue ricerche, questa volta dall’azienda detentrice del marchio di sigarette Camel. In seguito, Changeux continuava le sue ricerche e nell’aprile 1999 pubblicava sulla prestigiosa rivista Nature un articolo che definiva la nicotina uno degli analgesici più efficaci, ipotizzandone un uso terapeutico.[2] Il BMJ ha contattato di recente il prof Changeux, che si è difeso sostenendo di non aver mai ricevuto fondi direttamente o indirettamente legati all’industria del tabacco sin dagli anni ’90.

Uno degli autori dell’articolo poi ritirato dall’European Respiratory Journal, K. Farsalinos, forse il massimo tra gli esperti di tabacco riscaldato (sul tema ha pubblicato dal 2011 circa 100 articoli scientifici) ipotizzava, già prima dei pre-print di cui sopra e in assenza di ricerche specifiche, che le sigarette elettroniche potessero svolgere un ruolo protettivo nei riguardi della Covid-19. Si tratta della cosiddetta “ipotesi nicotina”, che egli aveva sostenuto per la prima volta nel 2020 nell’ambito di un congresso sul fumo, in veste di direttore della ricerca scientifica della British American Tobacco, produttrice delle Lucky Strike. Attorno al concetto di Tobacco Harm Reduction (THR) operano ricercatori di tutto il mondo, che si battono in apparenza contro i danni delle sigarette, ma in realtà spingono perché siano sostituite dal vaping, cioè dal vapore della sigaretta elettronica. Alcuni di essi sono arrivati a scrivere lettere all’OMS perché spinga i fumatori assuefatti alle sigarette a passare a prodotti a rischio ridotto. Sembra strano, ma questo concetto, cioè la sicurezza delle sigarette elettroniche, è passato anche in UK ed è stato fatto proprio addirittura dal Royal College of Physicians.

La prof.ssa Ruth Malone, da anni pioniera nella campagna anti tabacco e contro gli effetti dannosi del fumo, direttrice della rivista Tobacco Control, scrive come le nazioni abbiano un approccio sostanzialmente diverso nei confronti della nicotina e delle sigarette elettroniche e come questo abbia creato forte confusione anche tra i consumatori. A ciò ha contribuito non poco la posizione pilatesca dell’OMS la quale, pur sostenendo che anche le sigarette elettroniche pongono problemi, aggiunge che non ci sono dati sufficienti per conoscerne il reale impatto sulla salute, visto il tempo di uso relativamente breve. Proprio per questa confusione, creata ad arte da alcuni ricercatori, le sigarette elettroniche stanno prendendo piede, rappresentando nel 2019 il 19% delle vendite totali di sigarette, per un fatturato di 6 milioni di $.

Leggendo l’articolo del BMJ si può rimanere perplessi dal fatto che Big Tobacco continui a finanziare ricerche e gruppi che a parole demonizzano il fumo, ma bisogna intenderci. In questi lavori per “smoke” si definisce la combustione del tabacco; fa comodo assolvere invece la nicotina e il vapore come suo vettore.

L’“ipotesi nicotina” appare anche in un editoriale dell’aprile 2020 di Toxicology Report; tra gli autori, oltre a Farsalinos, appare Kostantinos Poulas, suo collega. Entrambi hanno ricevuto fondi per la loro ricerca, 75mila $ da Nobacco, principale distributore di sigarette elettroniche in Grecia. Un terzo autore, Wallace Hayes, è stato già consulente per Philip Morris. Né Farsalinos né Poulas hanno mai ammesso i fondi ricevuti da Nobacco, hanno anzi accusato i giornalisti di mettere in scena una caccia alle streghe nei loro confronti. In un passato recente, entrambi avevano ricevuto fondi consistenti dall’associazione americana di produttori di E-Liquid (prodotti liquidi a base di nicotina) per due loro articoli. Poulas aveva ricevuto contributi dalla Fondazione per uno Smoke-free World (un mondo libero dal fumo!), un’associazione no-profit finanziata da Philip Morris, che aveva dispensato 1 miliardo di $ in 12 anni per produrre studi dove si ipotizzava un mondo senza gli effetti dannosi del fumo (ma con gli effetti positivi del passaggio al vapore).

Come avevo ricordato nel precedente articolo, né Farsalinos né il suo collega Poulas avevano dichiarato a European Respiratory Journal i fondi ricevuti da Smoke-free World. Quest’ultima aveva investito 900mila € nel giugno 2020 per ricerche che stabilissero la relazione fra fumo, nicotina e Covid-19, ipotizzando come la pandemia avesse fornito molte opportunità per smettere di fumare, ovvero per passare all’uso dei meno dannosi prodotti a base di nicotina. Di recente più di 400 organizzazioni, incluse le 17 più prestigiose scuole statunitensi di salute pubblica, hanno vietato ogni finanziamento da Smoke-free World. Quest’anno, in piena pandemia, l’industria del tabacco spinge la narrazione sulla nicotina come soluzione al problema di una assuefazione da essa stessa creata, nell’intento di persuadere i decisori politici ad aprire il mercato ai suoi prodotti “smoke-free”.

Traduzione e adattamento di Giovanni Peronato

[1]. Horel S, Keyze T. Covid 19: how harm reduction advocates and the tobacco industry capitalised on the pandemic to promote nicotine. BMJ 2021;373:n1303

[2]. Leloup D, Foucault S. Comment le lobby du tabac a subventionné les labos Français. Le Monde 31/05/2012 https://www.lemonde.fr/sciences/article/2012/05/31/guerre-du-tabac-la-bataille-de-la-nicotine_1710837_1650684.html

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