Ecco perché non esiste il CdI “potenziale”

McCoy MS, Emanuel EJ. Why There Are No “Potential” Conflicts of Interest. JAMA 2017;317:1721-2
Durante il workshop dello IOM (Institute of Medicine) tenutosi nel 2013 su CdI e innovazioni in medicina, il rappresentante di PhRMA (l’associazione dei produttori di farmaci USA), nella sua presentazione, sottolineava la distinzione fra CdI “potenziale” e CdI vero o attuale.

 

Questa distinzione può ingenerare non poca confusione per cui è meglio ricordare la catena dei tre anelli attraverso i quali il CdI si presenta e produce dei danni:

  1. il medico o il ricercatore hanno un interesse secondario che può inficiare il loro libero giudizio;
  2. l’interesse secondario produce di fatto un giudizio alterato;
  3. il giudizio alterato comporta un danno al paziente o all’integrità della ricerca.

Il primo anello della catena è quello necessario e sufficiente per definire il CdI. Anche se sembra essere solo “potenziale”, senza danni conseguenti, in realtà è egualmente pericoloso.

Nel workshop citato il rappresentante di PhRMA faceva questo esempio: “un tangibile CdI finanziario potrebbe presentarsi se una persona avesse un legame finanziario diretto con l’esito positivo di una ricerca su un prodotto”, dove il condizionale (potrebbe) è certamente mal posto, perché costituisce uno spartiacque fra CdI soltanto potenziale e CdI in atto, distinzione che non deve più esistere. La situazione decritta da PhRMA non deve avere il condizionale (potrebbe presentarsi), ma l’indicativo (si presenta). Si tratta infatti di un CdI bello e buono! Questo perché è spesso difficile sapere se la situazione che può ingenerare un giudizio distorto lo abbia prodotto davvero. Per cui, ogni CdI rappresenta un pericolo in sé, che va evitato o minimizzato per il benessere dei pazienti o l’integrità della ricerca, a seconda dei casi.

Qualcuno potrebbe obiettare che esistono CdI di diverse dimensioni per quanto riguarda le conseguenze; come dire che esistono anche i peccati veniali. La gravità di un CdI dipende da due fattori:

  1. la probabilità che una certa situazione possa alterare il giudizio;
  2. la grandezza del danno che ne deriva.

Nel caso di interessi finanziari è chiaro che tutto dipende dall’ammontare della somma di cui si parla, ma introducendo il concetto di graduazione si farebbe risaltare di più il secondo dei due elementi sopra indicati, oscurando così l’importanza del primo e le sue implicazioni etiche.

Un modo comune di minimizzare un CdI è quello di presentarlo come “necessario” per la sopravvivenza finanziaria di una rivista o di un’associazione. Si tratta di giustificare i cosiddetti finanziamenti non condizionati. Ma chi ci può assicurare che lo sponsor sia del tutto disinteressato all’opera che sta finanziando? Ci si può chiedere: perché lo fa? Una maniera per evitare questo tipo di CdI potrebbe essere quello di chiedere un finanziamento per un supplemento di una rivista già completato prima della richiesta, e questo può essere un modo di agire corretto, da includere in tutta trasparenza nella politica editoriale. É il caso della rivista Nature Medicine.

Il problema CdI “percepito” o “apparente” si presenta quando si sospetta che esista, ma non se ne hanno le prove. In questo caso, il sospetto rischia di minare la credibilità di un medico o di un ricercatore. La possibilità è soltanto binaria: o c’è o non c’è. L’autore dell’articolo fa un esempio: “ricevere danaro per una prestazione professionale da parte di un fondo di investimento che chiede su quale ricerca farmacologica sia meglio investire” non rappresenta un CdI. Manca infatti l’interesse finanziario secondario, ma – aggiunge l’autore – ci potrebbe essere se il professionista consultato possedesse titoli di investimento in un certo settore farmaceutico.

Nelle conclusioni si torna a ribadire l’errore che si commette distinguendo CdI potenziale ed attuale, come propone ancora qualcuno. Chi pensa così non ha compreso nulla delle implicazioni etiche del CdI, che abbia o meno prodotto giudizi alterati o, peggio ancora, effetti negativi. Si tratta di una distinzione da abolire. Solo la chiarezza dei termini può infatti permettere l’attuazione di una politica di regolamentazione adeguata.

Libera traduzione di Giovanni Peronato