La scorsa settimana un informatore farmaceutico, dopo avermi presentato i prodotti della sua azienda, mi ha chiesto se avessi piacere a partecipare a una cena in un ristorante della mia città; aveva fatto la stessa richiesta ad altri miei colleghi (che avevano già accettato), per cui mi esortava ad accogliere l’invito per trascorrere una serata piacevole in compagnia.
Il British Medical Journal, storica rivista medica britannica, conduce da tempo approfondite analisi sugli intrecci tra salute e mercato. È stato tra i primi periodici medici, nel 2003, a dedicare un numero pressoché monografico al conflitto d’interesse; il titolo era: “Danzando con un porcospino”; a chiare lettere il BMJ sosteneva che “era tempo di liberare i medici dalle industrie farmaceutiche”, che ne condizionavano pesantemente comportamenti e decisioni.
Da allora nelle riviste scientifiche internazionali si sono moltiplicati gli studi che hanno riguardato le ricadute del marketing delle ditte produttrici di farmaci, dispositivi medici e alimenti per l’infanzia sulle prescrizioni mediche.
ProPublica, un’organizzazione giornalistica no-profit degli Usa, ha recentemente pubblicato un lavoro di analisi sui dati dei pagamenti dell’industria ai medici e sui dati delle prescrizioni di farmaci sui database di Medicare; i risultati mostrano con chiarezza che i medici che ricevono “servizi” dall’industria tendono a prescrivere in maniera differente rispetto ai colleghi che non hanno avuto rapporti con le ditte; in particolare lo studio ha analizzato quanto incidevano i rapporti con i rappresentanti delle aziende farmaceutiche sulla prescrizione di farmaci griffati. I servizi andavano da inviti a cene, a spese di partecipazioni a congressi, a compensi per relazioni scientifiche; lo studio dimostra che tanto più era il valore del servizio reso dalle ditte, tanto più numerose erano le prescrizioni di farmaci griffati. A conferma che le strategie di marketing che le ditte pianificano nei confronti dei medici funzionano nel condizionarne le prescrizioni, come del resto ampiamente dimostrato in precedenza; così come c’è evidenza della scarsissima percezione dell’importanza di questo fenomeno nella classe medica.
ProPublica ha potuto condurre questa ricerca perché negli Usa dal 2013 c’è una legge (il Sunshine Act) che obbliga a rendere pubblici i pagamenti dell’industria del farmaco e dei dispositivi medici nei confronti delle istituzioni sanitarie e dei singoli medici. È una legge che non pone paletti al conflitto di interesse, ma che quanto meno cerca di dare la massima trasparenza a un fenomeno prima nascosto, conosciuto certamente, ma avvolto in un alone di mistero; adesso tutto è alla luce del sole e questo è certamente un passo importante. In Italia e in Europa ancora siamo al palo; le lobby di big pharma e di una buona parte delle associazioni professionali dei medici stanno evidentemente lavorando duro per evitare che si possa legiferare.
C’è da augurarsi che la cosiddetta società civile si mobiliti, al fianco delle (poche) organizzazioni mediche che da tempo si battono per un Sunshine Act europeo; bisogna trovare il modo di rendere questi conflitti di interesse socialmente e professionalmente inaccettabili.
Sergio Conti Nibali, lettera al Sole 24 Ore, 22 giugno 2016
PS Ovviamente ho cortesemente declinato l’invito a cena del rappresentante, motivando la mia scelta.