Oltre la semplice dichiarazione di conflitti di interessi

La maggior parte delle malattie non trasmissibili ha come fattore di rischio il consumo di prodotti nocivi: tabacco, alcol, bevande zuccherate, alimenti ultra-processati. Un recente articolo esplora le relazioni tra i produttori di queste merci e l’allineamento delle loro strategie commerciali, per proporre un approccio politico e di salute pubblica coerente (1).

L’analisi include anche l’industria del gioco d’azzardo per le sue conseguenze sulla salute mentale. Dopo aver riunito, nel febbraio del 2016, 50 ricercatori da 20 istituzioni accademiche per gettare luce sul tema, gli autori hanno portato a termine delle revisioni della letteratura, scientifica e non, alla ricerca di relazioni, connessioni, alleanze, e di scambi di dirigenti e consulenti tra industrie. Hanno poi comparato le politiche commerciali delle stesse, alla ricerca di somiglianze nelle tattiche e strategie impiegate. Queste revisioni erano di proposito non sistematiche perché l’intento non era di essere complete, ma di fornire degli esempi illustrativi.

Risultati: di legami tra ditte ve ne sono in abbondanza e riguardano investimenti, investitori, azionisti, proprietari, dirigenti, affiliazioni, sinergie e scambi di dati sui consumatori. L’industria del tabacco è presente anche in quella dell’alcol e delle bevande zuccherate, tanto per fare un esempio. Un gigante della birra sudafricano controlla anche la distribuzione della più famosa bevanda zuccherata in tutta l’Africa, per farne un altro. La Philip Morris possiede vigneti e cantine, ma anche una ditta di cannabis; mentre la British American Tobacco investe anche nelle macchinette per il gioco d’azzardo. Non si contano poi i casi di revolving doors, cioè di consulenti e dirigenti che passano allegramente da una ditta all’altra, per poi magari tornare alla prima, in barba ai principi della concorrenza e del libero mercato. Questo fenomeno si allarga anche al settore pubblico, con casi di politici e dirigenti, addirittura dell’OMS, che, concluso il loro mandato, si mettono senza problemi al servizio di multinazionali. Chi fosse interessato ad altri esempi non ha che da leggersi l’articolo.

La conseguenza di questi legami è la somiglianza nelle politiche e nelle strategie commerciali. Una tabella mostra corrispondenze tra ditte nei metodi di lobby, nell’uso di gruppi di pressione, nella comunicazione rivolta ai giovani, nel rappresentarsi come parte della soluzione, nelle tecniche di whitewashing (per coprire le malefatte con buone azioni) e greenwashing (per sembrare rispettose di clima e ambiente), nell’allearsi con scuole e istituzioni caritatevoli, nel proporre codici volontari di autodisciplina, e nel cercare di infiltrare organi e commissioni dove si prendono decisioni. Non mancano ovviamente i finanziamenti a università e centri di ricerca, oltre alla sponsorizzazione di eventi formativi e congressuali, con la conseguente creazione di CdI. Anche per queste somiglianze vale la pena leggere l’articolo alla ricerca di esempi.

Secondo gli autori, è evidente l’esistenza di un quadro di riferimento comune per tutte le ditte dei settori studiati per quanto riguarda la loro influenza sulle politiche generali, comprese quelle di salute pubblica. Ciò comporta da un lato la necessità di ripensare a tutte le implicazioni dei CdI, dall’altro il conseguente bisogno di una risposta unitaria e coerente, a cominciare da ricerca e formazione per quanto riguarda il settore salute. Si tratta, infatti, di contrapporsi ai determinanti commerciali di salute e al potere delle multinazionali di tabacco, alcol, bevande zuccherate, alimenti ultra-processati e gioco d’azzardo (2).

Di come cercare di liberare la ricerca da CdI di cui sopra tratta un articolo pubblicato nello stesso numero della rivista (3). Gli autori sostengono che il potere delle multinazionali è stato sottostimato dalla maggior parte dei ricercatori. Questo potere è sempre più spesso esercitato in modo molto sottile, con l’intento di nasconderlo. A volte assume la forma di concessioni miranti a pacificare o neutralizzare le opposizioni. Altre volte agisce più apertamente in difesa della reputazione delle ditte e delle alleanze tra ditte. In altri casi si traveste da collaborazione, per esempio nella creazione di sempre più numerose alleanze tra pubblico e privato. Per contrapporsi a questo potere, i ricercatori devono innanzitutto essere coscienti della sua esistenza e del modo in cui agisce, oltre che delle conseguenze per la salute pubblica: “un primo passo cruciale per affrontare i determinanti commerciali di salute consiste nello smontare, disaggregare, investigare e vagliare le innumerevoli fonti e forme di potere aziendale”. Solo così possono poi pensare di sfidarlo e di ridurne la nocività.

I due articoli appena commentati sono accompagnati da un editoriale (4). Gli autori dello stesso affermano che, data la complessità delle strategie commerciali, le dichiarazioni sui CdI non sono più sufficienti e che bisogna andare oltre. Innanzitutto non bastano le dichiarazioni individuali; è necessaria trasparenza anche sui CdI delle istituzioni e delle organizzazioni, a cominciare dalle riviste scientifiche e rispettivi proprietari ed editori. E poi ci vuole un approccio comune e collettivo che porti a evitare i CdI, svelando i sottili meccanismi messi in atto dall’industria per farli apparire come normali o addirittura benefici.

A cura di Adriano Cattaneo

1) [1] Knai C, Petticrew M, Capewell S et al. The case for developing a cohesive systems approach to research across unhealthy commodity industries. BMJ Global Health 2021;6:e003543

2)   de Lacy-Vawdon C, Livingstone C. Defining the commercial determinants of health: a system-atic review. BMC Public Health 2020; 20: 1022

3)   Lacy-Nichols J, Marten R. Power and the commercial determinants of health: ideas for a re-search agenda. BMJ Global Health 2021;6:e003850

4)   Raynes-Greenow C, Gaudino JA, Taylor Wilson R et al. Beyond simple disclosure: addressing concerns about industry influence on public health. BMJ Global Health 2021;6:e004824

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