La presidente di SM ETS, coordinatrice del progetto “Fare di più non significa fare meglio” di CW Italy dichiara su questa lettera che “Dai risultati di tutte le indagini sui professionisti effettuate in CW Italy emerge da un lato la condivisione di gran parte delle raccomandazioni, dall’altro la loro insufficiente applicazione”. Le indagini che cita rafforzano la sua deludente conclusione.
Un’analisi di popolazione relativa a sette raccomandazioni di CW aveva mostrato già nel 2015 cambiamenti minimi equamente distribuiti tra diminuzioni desiderabili, aumenti indesiderati deludenti, o effetti nulli. [1] Un nostro contributo di allora, accettato da JAMA Internal Medicine, aveva analizzato e cercato di spiegare che cosa non stava funzionando nella strategia di CW. [2] Anticipo qualche esempio specifico, prima di una valutazione generale. In alcuni casi non poteva funzionare la formulazione della raccomandazione in se stessa. Ad esempio: “Non prescrivere abitualmente antibiotici per sinusite acuta lieve o moderata, a meno che i sintomi non durino 7 giorni o più” non può funzionare, perché la stessa “motivazione” fornita dall’associazione professionale affermava: “La rinosinusite acuta si risolve senza trattamento… in 2 settimane”. Dunque, i medici che si attenessero alla raccomandazione inizierebbero un trattamento antibiotico nella maggior parte dei casi, senza assumersi la responsabilità sia di evitare una prassi diffusa, sia di disattendere quanto raccomanda la propria associazione professionale tramite CW. La raccomandazione “Non fare l’imaging per il mal di schiena entro le prime 6 settimane, a meno che non siano presenti semafori rossi” e il suo razionale “La diagnostica per immagini prima di 6 settimane non migliora i risultati” sono ancor più in contraddizione. Infatti, implicano che dopo 6 settimane l’imaging possa di fatto migliorare gli esiti. Invece, le prove mostrano che, salvo in casi di semafori rossi, l’imaging non migliora il dolore e la funzione, neppure dopo 3, 6, o 12 mesi,[3,4] e si dovrebbe riservare dopo considerevole attesa, quando il quadro non si risolve ed è ragionevole passare a prendere in considerazione interventi invasivi.[5] Anche in molti altri casi le raccomandazioni non sono nette, e lasciano vie d’uscita a chi intenda continuare con prassi differenti (con abuso anche dell’espressione “non praticare di routine…”, che lascia aperta a chiunque l’autogiustificazione: “certo, non lo faccio di routine, a tutti quanti!”).
La principale ragione strutturale della mancata implementazione delle raccomandazioni, pure spesso dichiaratamente “condivise” dai destinatari rispondenti, risiede nel sistema di remunerazione, e più in generale nel sistema premiante, dei medici e del personale sanitario negli Stati Uniti, così come in sostanza in tutti i paesi. Nella maggior parte dei casi, le convenienze dei medici, al di là delle buone intenzioni, vanno nella direzione di prescrivere trattamenti o di erogare prestazioni diagnostiche e servizi sanitari. I pagamenti a prestazione (o assimilabili) da parte delle organizzazioni “acquirenti” e di quelle erogatrici, a loro volta finanziate in base agli output (prestazioni o loro raggruppamenti/DRG), si traducono in incentivi finanziari e alla carriera di chi prescrive/eroga di più. Analoga distorsione è impressa dalla medicina difensiva, indotta da aspettative e pressioni di pazienti o clienti, portati fuori strada dai miti tecnologici promossi sia dai produttori di farmaci, dispositivi e diagnostica, sia da assicurazioni con gli stessi colluse, sia dai medici stessi, spinti dai propri interessi di fondo.
Se i sistemi di assistenza sanitaria seguono modelli che “pagano per la malattia” (cioè: pagano per prestazioni in risposta a una malattia, per far diagnosi di una malattia, o gestire una malattia) non c’è da meravigliarsi del fatto che i medici, e in generale i prescrittori e gli erogatori in sanità, adattino il loro comportamento e “vendano la malattia”. Dunque si prodigano per anticiparla con screening (anche quando il risultato non cambia), esagerarla con sovradiagnosi, sfruttare la malattia con eccessi di trattamenti per quantità e costi… Si badi che chi agisce così nella gran parte dei casi è inconsapevole di fare in tal modo i propri interessi, ed è convinto di agire solo per il bene del paziente. Quest’ultima dispercezione delle proprie motivazioni profonde è favorita da linee guida servite dalle proprie associazioni professionali, a loro volta condizionate da produttori-sponsor, che mettono a disposizione dei professionisti quanto occorre per giustificare eccessi di diagnosi e trattamenti ammantandoli di “etica”, per assicurare a chi fa i propri e i loro interessi una nobile percezione di “integrità”. Pagare per la malattia mette i medici, le loro organizzazioni, e l’intero sistema sanitario in CdI strutturale con la salute e il benessere sociale. [6,7]
Per disincentivare le pratiche low-value (che intanto si dovrebbe avere il coraggio di chiamare più semplicemente no-value, per evitare messaggi ambigui), istituzioni e decisori in sanità dovrebbero intraprendere due azioni principali:
A) agire con più coraggio ed emettere raccomandazioni esplicite, senza omettere rischi per la salute sia per l’individuo che per la comunità, delle tecnologie sanitarie low/no-value, anziché limitarsi a sostenere che “non ci sono prove sufficienti” per raccomandare e/o pagare tali tecnologie.
B) Cosa più importante, dovrebbero riformare i sistemi di finanziamento delle organizzazioni sanitarie e i sistemi retributivi dei professionisti in modo che siano allineati alla salute dei pazienti e a quella della comunità (espressa con indicatori di esito inequivocabili, come la longevità), piuttosto che alla diagnosi e cura delle loro malattie.
In coerenza con ciò, sistemi premianti basati sul pagamento a prestazione o assimilabili dovrebbero essere evitati, perché fanno aumentare l’abuso tecnologico e i servizi redditizi in modo indipendente dalla loro efficacia, a dispetto delle raccomandazioni altisonanti. Rileggendo quanto avevo scritto nel 2015, avrei ben poco da aggiungere, se non la consapevolezza che una riforma strutturale come quella di un “Modello che paga la Salute”, [7] benché concettualmente semplice, richiede un cambio di paradigma così profondo che la maggior parte delle persone evita persino di approfondire la proposta, benché questa con la Fondazione Allineare Sanità e Salute sia in campo da prima della nascita di SM. Al momento, tuttavia, non riesco a intravvedere scorciatoie; e comunque penso che la strategia di SM e CW Italy non sia idonea a conseguire gli obiettivi che si prefigge.
Pur con lo scetticismo sopra espresso rispetto alla strategia adottata da SM e alla filosofia che la sottende,
(… parlando del cultore di una disciplina specialistica) “è difficile far capire qualcosa a qualcuno se il suo stipendio [inteso come sistema premiante in generale] dipende dal fatto che non capisca” (Upton Sinclair)
vorrei tornare ai suoi condivisibili obiettivi, declinati in CW Italy, per segnalare anche alcuni rischi del progetto, facendo riferimento agli interessi di salute della comunità, di sostenibilità del SSN, e alla necessità di non offrire qualche involontario appiglio alla medicina difensiva.
Due principali rischi
1. Whitewashing. Se un’iniziativa ha successo, come è stato per CW Italy anni fa, c’è la tentazione di molti a salire su quel carro, gattopardi inclusi. Le cinque pratiche indicate da molte associazioni professionali sono spesso lontane dal loro core business e fanno una concessione limitata, che però ottiene ricadute di credibilità anche per tutte le pratiche non incluse nella lista, comprese tante altre che le prove scientifiche richiederebbero di mettere in discussione.
2. Formulare raccomandazioni di compromesso (non dichiarato) tra quanto dimostrano le prove e quanto accade nella pratica, accreditandole come un nuovo standard doppiamente autorevole per i medici, perché formulato dall’associazione professionale di appartenenza e avvalorato da SM. Questo standard non evidence-based rischia di diventare vincolante anche per chi alle prove vorrebbe attenersi (si pensi alla responsabilità medica dopo la “Legge Gelli” e al riferimento assolutorio a linee guida/buone pratiche; queste si caratterizzano non per il fatto di essere evidence-based, che consentirebbe a chiunque di discuterne con riferimenti oggettivi a prove, a prescindere dal “principio di autorità”; ma per il fatto di essere “accreditate dalla comunità scientifica”). Alcuni esempi di questo rischio:
- (SIMG) “Non prescrivere antibiotici per infezioni acute delle vie aeree superiori. Valutarne l’opportunità in pazienti a rischio di infezioni delle vie aeree inferiori”. Ma chi mai sarebbe esente dal rischio di tosse/bronchite?
- “Non prescrivere di routine inibitori di pompa protonica (IPP) a pazienti senza ulteriori fattori di rischio per malattia ulcerosa”. Ma pochi sono senza tali fattori: per AIFA hanno fattori di rischio gli ultra65enni, maggiori consumatori di IPP; noto fattore di rischio è l’essere portatore di Helicobacter pylori, come metà degli italiani; o l’essere fumatore: un altro 20% degli italiani.
Queste formulazioni legittimano anche prescrizioni indiscriminate. Altre schede presentano problemi simili.
Proposte
Anni fa avevo proposto a SM-CW Italy diverse strategie complementari per scongiurare i rischi evidenziati. Anche se adottate solo in parte, avrebbero potuto essere un progresso rispetto alla situazione attuale.
- Intervenire con competenza e rigore evidence-based, esercitando una funzione di filtro dialettico rispetto alle pratiche proposte.
- Chiarire che le pratiche indicate da ogni disciplina non devono per forza essere le più importanti/inappropriate in uso, accettare che possano essere anche meno di cinque e meno centrali, purché evidence-based e senza i compromessi e le ambiguità che ne interessano molte.
- Fare ampio uso del termine “almeno”, per distinguere soglie d’inaccettabilità da altro, di cui è legittimo continuare a discutere, chiarendo che la raccomandazione non va confusa con un “nuovo standard cui adeguarsi”.
- Aggiungere alle schede commenti o posizioni di SM (che però teorizza una interferenza minima con le raccomandazioni delle associazioni professionali), o di altre organizzazioni qualificate e indipendenti (varie riviste mediche lo fanno, con un sintetico paragrafo dedicato alle “posizioni di altri”). Ciò darebbe il triplo beneficio di: a) concorrere a orientare i destinatari dei messaggi; b) aumentare la qualità delle pratiche indicate, perché le associazioni professionali proponenti saprebbero che le loro indicazioni possono esser messe in discussione; c) non alimentare la convinzione distorsiva che gli unici titolati a esprimersi siano gli specialisti della disciplina in causa (spesso portatori di importanti CdI).
- Non sollecitare approvazioni nazionali di soglie/raccomandazioni discutibili (in base allo stato delle prove) formulate da una disciplina medica (condizionata dai propri CdI), che rischiano di essere identificate come standard da colleghi e magistrati, favorendo la medicina difensiva e frenando realtà più evolute.
Alberto Donzelli
1. Rosenberg A, Agiro A, Gottlieb M, et al. Early trends among seven recommendations from the Choosing Wisely Campaign. JAMA Intern Med 2015;175:1913-20
2. Donzelli A, Lafranconi A. Letter to: Wolfson DB. Choosing Wisely recommendations using administrative claims data. JAMA Intern Med 2016;176:565-6
3. Chou R, Fu R, Carrino JA, Deyo RA. Imaging strategies for low-back pain: systematic review and meta-analysis. Lancet 2009;373:463-72
4. Chou R, Deyo RA, Jarvik JG. Appropriate use of lumbar imaging for evaluation of low back pain. Radiol Clin North Am 2012;50:569-85
5. National Institute for Health Care and Excellence (NICE). Low back pain (early management): overview. http://pathways.nice.org.uk/pathways/low- back-pain-early-management. Last updated January 29, 2014. Accessed February 3, 2016
6. Donzelli A. A reform of rewarding systems to fight against disease mongering [comment posted March 31, 2009 to Moynihan R, Henry D. The fight against disease mongering: generating knowledge for action]. PLoS Med 2006;3:e191
7. Donzelli A. Una riforma strutturale per la Sanità: pagare la salute, non la malattia. Allineare le convenienze dei diversi attori all’etica e alla salute della comunità dei cittadini. Epidemiol Prev 2017;41:312-3